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2 Dicembre 2004

L’autonomia calpestata

Autore: Giuseppe D'Avanzo
Fonte: la Repubblica

Vi diranno che questa legge che rinnova l´ordinamento giudiziario è una legge tecnica. Per di più, dovuta e necessaria. Vi diranno che è un modo – il più ragionevole – per adattare alla modernità il lavoro dei giudici e avere finalmente una giustizia equa e rapida. Semplicemente, non è vero. Per rendersene conto è sufficiente mettere il dito tra le parole e i fatti, osservare quel che dicono e quel che poi fanno. Pretendono di parlare di organizzazione giudiziaria, cioè del modo per tutelare i diritti dell´imputato e della vittima del reato; per garantire i doveri della difesa dello Stato e della comunità. Ossessivamente discutono soltanto di accesso e formazione, carriere e gerarchie, meriti e responsabilità dei magistrati. Rivendicano di aver tolto ruggine alla macchina giudiziaria e non affrontano né la riforma del processo penale e civile né la revisione dei codici.

In compenso, manomettono i poteri del consiglio superiore della magistratura; rafforzano i poteri del ministro di giustizia; gerarchizzano l´ufficio del pubblico ministero; incentivano, disincentivano, parcellizzano l´intera consorteria imbrigliandola nelle regole del pre-costituzionale Ordinamento Grandi del 1942. Costruiscono una piramide. Nell´angolo alto i magistrati, ora, potranno arrivarci con il consenso del potere politico.
Quel che non vi diranno è ciò che questa riforma auspica: il conformismo dei giudici, «la peggiore sciagura che può capitare a un magistrato». «Il conformismo – scriveva Piero Calamandrei – è simile all´agorafobia: è il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alla pressioni dei superiori, ma se le immagina e le soddisfa in anticipo»
Il nuovo ordinamento giudiziario è la violenta pressione per piegare l´autonomia delle toghe. Non è riforma della giustizia, è riforma dei giudici. Della loro identità, della loro cultura, della loro “testa”. È ribaltamento dell´idea che i magistrati hanno di se stessi e dell´idea che noi cittadini abbiamo di loro. È costruzione maniacale di percorsi controllati e controllabili, di strutture verticali dove la possibilità stessa che una “testa storta” faccia un passo laterale e imprevisto o addirittura fiati è da escludere. A meno di non volerne pagare un alto prezzo con l´esclusione dalla carriera e dalla gerarchia o peggio con distruttivi processi disciplinari.
È parso cogliere fin dalla prime ore di ieri un saggio di quanto accadrà molto presto. Sorprendentemente, lo ha offerto il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. I giudici sono in camera di consiglio a Palermo. Devono decidere se sono sufficienti, insufficienti o inesistenti le prove per dire mafioso Marcello Dell´Utri, potentissimo e influentissimo socio di Silvio Berlusconi, l´Egoarca. Casini gli consegna in pubblico la sua stima e amicizia. Deve essere un buonuomo, dunque. Anzi, è un buonuomo. Alla luce della riforma, suona come un avvertimento. Quell´uomo è caro al Potere, che ne tenga conto chi deve decidere… È un ritornello che sentiremo ancora. Se non questa settimana, al più tardi il prossimo venerdì un tribunale di Milano è chiamato a dire innocente o colpevole addirittura il presidente del Consiglio, accusato di aver corrotto «stabilmente» i giudici di Roma per far prosperare i suoi affari televisivi, e non solo. Se è caro al Potere Dell´Utri, che cosa dirà il presidente della Camera – terza carica dello Stato – del giudizio affrontato dall´uomo che è il Potere stesso? Non lo immaginiamo. In attesa di ascoltare le forme che assumeranno nuovi avvertimenti, conviene chiedersi se è costituzionale che una così radicale rivoluzione del potere giudiziario avvenga a maggioranza, con una legge ordinaria. Che cosa può giustificarla o renderla improrogabile.

«In conformità con la Costituzione» è una precisazione «pressoché unica» nella nostra Carta repubblicana. L´espressione si può leggere nella VII disposizione transitoria. Vi si dice che il nuovo ordinamento giudiziario deve essere emanato «in conformità alla Costituzione».
Perché quella eccentrica e solitaria precisazione? La ragione è che la legge sull´ordinamento giudiziario non è una qualsiasi legge ordinaria. «È una legge – ha spiegato inutilmente Andrea Manzella al Senato il 26 ottobre scorso – che fa corpo con la Costituzione. Forma con essa un blocco di costituzionalità che garantisce la magistratura come “ordine autonomo e indipendente da ogni potere”. È la legge che rende effettive le garanzie che altrimenti resterebbero indefinite. “In conformità con la Costituzione” vuol dire che la Costituzione affida a questa legge una missione di traduzione degli equilibri in essa stabiliti. Da un lato, contro le eventuali pretese assolutistiche del potere politico. Dall´altro, contro le eventuali pretese isolazionistiche dell´ordine giudiziario».
Non è dunque una legge qualsiasi perché non disciplina il lavoro di una burocrazia, ma disegna, nell´architettura dello Stato, uno dei poteri chiamato a tutelare i diritti del cittadino. Delimita di quel potere gli ambiti. Ne designa la forza e i limiti. Ne codifica la relazione con gli altri poteri proteggendone o limitandone l´autonomia. Declinata così, la riforma, presentata come «tecnica», si riappropria dell´altissimo valore politico che i tecnicismi vogliono nascondere. I più onesti sostenitori del governo lo hanno detto nel corso dell´iter parlamentare: il ridimensionamento del potere giudiziario può essere «l´atto rifondativo del primato della democrazia e della politica dopo dieci anni di veleni e di interdizioni».
Atto rifondativo della democrazia. È il nocciolo della questione, crediamo. È nel regolamento di conti tra politica e magistratura; è nella presunta rifondazione di una democrazia violata la vera ragione e la più autentica necessità della riforma. È da questa vendetta o vittoria che deve nascere, secondo il centrodestra, una nuova idea di democrazia. Attraverso la scorciatoia stretta di una riforma tecnica, si attribuisce alla sovranità popolare, e a chi in suo nome governa, un potere primigenio e illimitato, al cospetto del quale ogni altro potere deve cedere.

Quel che mostra il suo volto con la “riforma dei giudici” è un potere che non tollera né il limite della legge interpretata dai giudici né istanze superiori come la Costituzione. È un´idea del potere già liquidata, dopo le grandi tragedie dei regimi autoritari fascisti e comunisti del Novecento, da Costituzioni che hanno abolito ogni forma di sovranità concentrata in un solo soggetto, e tuttavia è l´idea di democrazia come «dittatura della maggioranza» che la maggioranza, prigioniera dell´Egoarca, coltiva. Il Capo dello Stato l´ha più volte bocciata.
«Il cardine delle moderne democrazie – ha ripetuto Carlo Azeglio Ciampi – è il principio della divisione dei poteri. Titolare della funzione legislativa è il Parlamento. Spetta, in via esclusiva, alla Corte Costituzionale il giudizio sulle controversie di legittimità costituzionale delle leggi. E appartiene unicamente alla magistratura la funzione giurisdizionale che si esercita interpretando e applicando la legge perché l´autonomia e l´indipendenza della magistratura costituiscono valori intangibili, consacrati come tali dalla Carta costituzionale che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge».
La legge dell´ordinamento giudiziario, che dovrà ora essere promulgata, è coerente con il disegno costituzionale che Ciampi difende e sostiene? Dopo gli interrogativi imposti dalla “Gasparri” (potere nel sistema televisivo) e la “Schifani” (garanzie d´impunità per il premier), è ancora una volta dal Capo dello Stato che bisogna attendersi una risposta.