19 Luglio 2005
L’assedio al Quirinale
Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica
Chi crede che Marcello Pera, con un
attacco che non ha precedenti nella storia repubblicana, abbia voluto
colpire l´odiata «lobby» delle toghe, non ha capito nulla. Il Consiglio
superiore della magistratura è solo un finto bersaglio. L´obiettivo
vero di questa violenta offensiva del presidente del Senato, stavolta
sorprendentemente spalleggiato dal presidente della Camera, sta molto
più in alto. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi. Contestando il diritto
costituzionalmente e giuridicamente garantito del Csm ad esprimere un
parere «tecnico» sulla riforma dell´ordinamento giudiziario, il più
alto rappresentante delle assemblee degli eletti del popolo delegittima
il Capo dello Stato. Di fatto, lo accusa di attentare alla
Costituzione. Secondo Pera, il Csm non può valutare e discutere gli
effetti dei provvedimenti di legge discussi o approvati dal Parlamento.
Se lo fa, si pone fuori dal perimetro della Costituzione. Si trasforma
in una «terza Camera». Si eleva, in quanto potere giudiziario, allo
stesso livello del potere legislativo.
Viceversa, com´è ormai tristemente noto e come dimostra la rovinosa campagna
contro le toghe ingaggiata in questi quattro anni dal Polo, la
magistratura è poco più che un «ordine professionale» (come pretendono
gli azzeccagarbugli della destra) e non certo un «potere dello Stato»
(come invece prevede l´ordinamento costituzionale). Dunque, con i
pareri negativi emessi sulla riforma Castelli, e da ultimo con la
decisione di mettere all´ordine del giorno anche il cosiddetto
«emendamento Bobbio» (aggiunto alla riforma solo per impedire a
Giancarlo Caselli di concorrere alla nomina di procuratore nazionale
anti-mafia) il Consiglio superiore della magistratura ha compiuto un
atto sedizioso. Uno strappo eversivo dell´ordine costituzionale.
Il presidente del Senato sbaglia due volte. Sbaglia la prima volta
perché, mentre richiama in chiave restrittiva le competenze attribuite
al Csm dall´articolo 105 della Costituzione, si guarda bene dal
menzionare l´articolo 10 della legge istitutiva dell´organo di
autogoverno dei magistrati, che nel 1958 ha conferito allo stesso
Consiglio la facoltà di esprimere pareri su leggi e decreti al ministro
Guardasigilli. A questa grave e quanto mai singolare «amnesia» ha
dovuto porre rimedio, con tanto di nota ufficiale, il vicepresidente
del Csm. Ma Pera non si accontenta. E sbaglia la seconda volta perché,
accusando le toghe di aver violato la Carta del ´48, fa finta di
dimenticare che è stato proprio Ciampi, appena una settimana fa, ad
autorizzare con tanto di firma autografa l´inserimento del parere
sull´emendamento Bobbio nell´ordine del giorno della riunione del Csm.
Anche a questo ennesimo e inquietante svarione ha dovuto rimediare
Rognoni, rammentando un paio di questioni dirimenti che il presidente
del Senato non poteva certo ignorare. Quell´emendamento rappresenta un
«nuovo innesto» nel corpo di una riforma della giustizia che il Capo
dello Stato aveva già rinviato alle Camere per quattro, fondati e
rilevanti motivi di incostituzionalità. La discussione del Csm su
quell´emendamento, proprio per questo, ha ricevuto «l´assenso formale»
del Capo dello Stato.
Nella sortita di Pera si nasconde un sillogismo velenosissimo: 1) il
parere del Csm viola la Costituzione; 2) Ciampi ha autorizzato il
parere del Csm; 3) Ciampi viola la Costituzione. Non serve essere un
cultore di Aristotele per seguire la logica devastante di questo
ragionamento. Non serve essere un dotto filosofo della scienza per
capire la portata destabilizzante di un´accusa del genere. Semmai c´è
da chiedersi perché, in un momento così incerto sulle prospettive del
Paese e in una fase così complessa per i suoi equilibri politici, il
presidente del Senato accetti il rischio di aprire un conflitto
istituzionale irreparabile. C´è da chiedersi perché, dopo aver fatto da
sponda misurata e responsabile al Quirinale in questi tormentati
quattro anni di legislatura, stavolta persino Casini si sia schierato
con Pera, lasciando che sul Colle piovano gli schizzi di fango della
delegittimazione. C´è da chiedersi perché, dopo aver incarnato anche
sulla giustizia l´anima «moderata» in una coalizione di destra
radicale, sfascista e populista, adesso anche l´Udc di Marco Follini
abbia cominciato a cantare nel coro insieme a Pera. Alla stessa stregua
degli sguaiati «professionisti dell´anti-giustizia». Dei Castelli o dei
Cicchitto. Degli Schifani o dei Bondi.
Ogni sospetto è legittimo. Non mancano spiegazioni plausibili, se si
volesse limitare la posta in gioco al solo tema della giustizia. Sulla
riforma dell´ordinamento siamo alla vigilia di un confronto
parlamentare durissimo.
Il governo Berlusconi ha appena annunciato la richiesta del voto di
fiducia sul provvedimento. Ciampi l´ha già bocciato una volta, per
palese incostituzionalità. Da qualche tempo sul Colle trapela anche
l´eventualità di un secondo rinvio alle Camere, proprio per la dubbia
costituzionalità dell´emendamento Bobbio, nel frattempo inserito nel
testo dai falchi della Cdl. L´altolà di Pera, condiviso non più solo da
Forza Italia An e Lega ma ora anche dai centristi, potrebbe essere un
avvertimento lanciato al Capo dello Stato: se rifiuti per la seconda
volta di promulgare la legge, stavolta rischi l´impeachment, perché hai
attentato alla sovranità del Parlamento.
L´ipotesi ha una sua indubbia consistenza. Ma vi si colgono i segni di
una qualche sproporzione. La riforma Castelli, anche dentro il Polo,
non interessa più a nessuno. A parte il ministro-ingegnere che ci si è
giocato il cognome, nessuno sembra convinto della sua impellente
necessità. Se è così, la sensazione è che Pera, e Casini che gli è
andato dietro, abbiano sparato con un cannone per colpire un
passerotto. Per capire meglio, è forse più utile ampliare l´orizzonte.
E valutare la posta in gioco in una prospettiva più lunga. Ciampi, con
la sua saggia fermezza e la sua credibile equidistanza, si è rivelato
alla fine della legislatura come il più solido
argine alle scorrerie politiche e alle forzature istituzionali del
Cavaliere e i suoi «bravi». Ha manifestato una ferrea determinazione a
tenere duro fino all´ultimo giorno del suo settennato. Ha palesato una
convinta intenzione di sciogliere le Camere a febbraio, per portare
l´Italia la voto il 9 aprile e dare al Paese un governo nel pieno delle
sue funzioni già a giugno del 2006. Berlusconi è un leader in declino.
Umanamente annoiato e politicamente azzoppato. Se ha ancora una chance
di sopravvivenza, dopo Palazzo Chigi e oltre la Casa delle Libertà,
quella chance si chiama Quirinale. Dietro di lui, chi nutre la speranza
di succedergli nella
leadership è disposto a dargli una mano, per cercare di sfrattare anzitempo il riottoso inquilino del Colle.