Addio ai condottieri, addio ai capitani coraggiosi, addio alle grandi personalità dell’economia: il brusco scarto di lato del gigante Telecom sopraffatto dall’indebitamento, con l’eventualità di vedere alienata all’estero un’altra porzione della telefonia mobile italiana, sembra una specie di epitaffio sul capitalismo italiano. Se non un panorama cimiteriale, uno scenario da imprenditoria balcanizzata. I protagonisti delle avventure, o dei «sogni» industriali degli anni Ottanta, o sono scomparsi o hanno visto infrangersi i loro grandi progetti.
Risulta immediata la tentazione di identificare la scomparsa, l’uscita di scena o la metamorfosi delle figure simboliche della nostra economia come il segnale di una sindrome gravemente patologica per il paese, il suo peso nel contesto internazionale, i suoi livelli di innovazione e di competitività.
In realtà, a considerare in una dimensione storica «lunga» la situazione attuale, il lutto per la morte della figura sociale schumpeteriana del grande imprenditore appare un atteggiamento fuorviante, che non aiuta a capire la struttura e le potenzialità residue dell’economia italiana. Secondo lo storico dell’industria Giuseppe Berta, il primo shock avvenne già nel volgere di decennio fra gli anni Cinquanta e i Sessanta: la scomparsa di Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Vittorio Valletta rappresentò una cesura già allora carica di drammaticità. L’Italia del miracolo dopo la ricostruzione cominciava a incespicare in quegli anni, ritrovandosi senza bussole per affrontare i cambiamenti strutturali e politici del neocapitalismo.
Cominciava a profilarsi già allora il problema dell’evoluzione di un apparato industriale basato su alcune grandi imprese e sulla miriade delle piccole, all’interno di una società che si accostava ai consumi di massa. Il paese era sospeso tra fordismo e nanismo. La presenza-supplenza dell’economia pubblica riusciva nei casi migliori a innervare la tecnostruttura, costituendo una classe dirigente che tentava di reggere il cambiamento dell’intero assetto socioeconomico. Ma in prospettiva si potevano identificare vistose ragioni di debolezza: per tutti gli anni Settanta l’industria è stata al centro di un conflitto di bruciante violenza, a cui il ceto politico e il ceto imprenditoriale hanno cercato di dare risposte sul piano degli equilibri sociali prima che sul fronte della produttività, del profitto, della ricerca di mercati. Per esemplificare, quell’epoca si rappresenta più per l’accordo Agnelli-Lama sul punto unico di contingenza che per il dinamismo creativo delle grandi imprese. Più per il «patto fra i produttori» che per la spinta innovativa. In sostanza, per misure più difensive che non espansive.
Ma al di là dei processi più vistosi e preoccupanti, come il progressivo abbandono di settori strategici come la siderurgia, la chimica, l’elettronica, e oltre gli aspetti più problematici, come la prolungata collusività fra capitalismo privato e settore pubblico, fra impresa e politica, fra partecipazioni statali e società fuori mercato, si stavano già manifestando le condizioni di sistema che oggi fanno dell’economia italiana un apparato anomalo rispetto ai paesi avanzati.
Già negli anni Ottanta i leader imprenditoriali come Agnelli, Pirelli, De Benedetti, Gardini, per certi aspetti lo stesso Berlusconi, si stagliavano solitari su un tessuto industriale di piccola e media impresa. Alle spalle di quelli che la vulgata non soltanto italiana illustrava come condottieri rinascimentali, c’era pur sempre il capitalismo acefalo dei distretti industriali, l’industrializzazione «diffusa» della direttrice adriatica descritta da Giorgio Fuà, una creatività spontanea che faceva leva sulle risorse umane e materiali del territorio. A cui si affiancava, come elemento di successo, non locale ma non facilmente replicabile, la città della moda, l’epicentro dello stile collocato a Milano.
Ben poco che potesse qualificare una intera classe imprenditoriale e la sua élite più rappresentativa in termini di rischio, coraggio, scelta delle opportunità, sprovincializzazione: o meglio, questi tratti potevano essere una dote distribuita in modo puntiforme nella geografia economica, senza tuttavia riuscire a fare massa, a generare consenso, a suggerire e produrre iniziativa politica.
Fallite o rientrate le grandi avventure europee dei leader (Sgb per De Benedetti, Continental per Pirelli, la televisione commerciale in Francia per Berlusconi), l’imprenditoria nazionale si è trovata dentro una transizione difficile in sé, ma resa ancora più ardua dall’assenza di una seria cultura di mercato. L’autoimmagine dell’economia era ancora concentrata sulle famiglie, sui salotti buoni, sulle azioni che si pesano; e l’ideologia politica tendeva a preferire quella che studiosi come Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi definiscono «capitalismo di comunità» (lo stesso Romano Prodi, nei primi anni Novanta, manifestava una netta preferenza, rispetto al capitalismo anglosassone, per il «modello renano» codificato da Michel Albert, con il suo intreccio di stato e mercato, concorrenza e welfare: in pratica l’economia sociale di mercato creata in Germania da Adenauer e Erhard).
Tutto questo mentre nei paesi industriali avanzati tornava in primo piano la grande dimensione come qualità strategica nella competizione globale; e mentre i processi di liberalizzazione e di concentrazione determinavano un paradigma nuovo, destinato a influenzare in modo impressionante gli apparati economici del mondo sviluppato. La liquidazione dell’economia pubblica, realizzata in modo trafelato e con risultati spesso lontani dal desiderabile, è uno degli effetti di quel processo.
Adesso risulta fin troppo facile descrivere la parabola di un grande imprenditore come Benetton valutandola criticamente come un passaggio dall’impresa globale alla rendita e infine alla sostanziale dismissione; oppure osservare il caso della Telecom alla stregua di una privatizzazione realizzata con i debiti e che nei debiti si esaurisce. È meno ovvio considerare che in tutta l’economia occidentale si registra una tendenza generalizzata in cui la dimensione volontaristica dell’imprenditore tende a scomparire a vantaggio del capitalismo manageriale, delle public company, dell’azione dei fondi di private equity. Cioè di quelle strutture che sono in grado di selezionare le opportunità di produzione e di mercato, e di riversare sulle imprese volumi di investimento non disponibili per gli investitori isolati.
Questo non significa che le singole personalità non abbiano un peso. Il deus ex machina della Fiat risanata, Sergio Marchionne, ha sostenuto che tutte le aziende ancorate a un business vero, reale, consistente, possono essere risanate. Ma se si prescinde da esperienze molto specifiche come quella torinese, va ricordato che la grande imprenditorialità si innesta sulla grande innovazione tecnologica. Vale a dire su un terreno che non è propriamente quello meglio coltivato nell’Italia contemporanea.
Oggi, almeno una parte dell’apparato economico del paese ha ricostituito margini di profitto, ha ritrovato competitività, ha riguadagnato produttività. Se nelle stagioni scorse la parola chiave era «declino», adesso sono sempre più numerosi gli analisti che usano il termine «metamorfosi».
Ciò nondimeno, l’immagine dell’economia può essere dipinta come una galassia per lo più anonima di medie imprese nuovamente calate nella competizione internazionale, affiancate da un settore bancario che se pure riesce a produrre fusioni e integrazioni funzionali non ha ancora trovato una precisa vocazione di traino o acceleratore dello sviluppo.
Più che dalla perdita degli eroi, quindi, il sistema italiano è afflitto dal perdurare di una mancanza di strumenti operativi adeguati a una trasformazione.
Da un lato ciò sdrammatizza un dato simbolico, visto che la personalizzazione dell’economia sembra essere un elemento residuale, di status e di potere più che di progettazione reale della crescita. Ma per un altro verso, l’assenza dei leader mette allo scoperto una condizione strategica di asimmetria del capitalismo nazionale rispetto alla dimensione esterna. Rimpiangere l’epoca dei condottieri in fondo è un sentimento provinciale se non si mette a fuoco che la trasformazione economica richiede regole, istituti, strumenti, azione di governo e cultura. Più che la qualità eroica dei protagonisti, e oltre allo spontaneismo creativo della piccola dimensione territoriale, ci vuole un passo decisivo verso un capitalismo trasparente e funzionante. Quel passo che finora è sempre stato più breve del necessario.