ROMA — «È stato un grave errore aver lasciato a Gino Strada la trattativa per la liberazione del giornalista italiano». E sarebbe un errore considerare le parole di Arturo Parisi come un banale sfogo per esser stato tagliato fuori dalla gestione del «caso Mastrogiacomo», come la solita polemichetta di governo, l’ennesima lite con Massimo D’Alema. Stavolta il problema non risiede nel difficile rapporto con il titolare della Farnesina, è assai più delicato, investe direttamente il premier e il governo, perché all’indomani dell’operazione in Afghanistan in ballo c’è «l’immagine e la credibilità del nostro Paese», e «il prezzo politico che abbiamo già pagato, potrebbe in futuro rivelarsi ancor più alto».
Sia chiaro, il ministro della Difesa è sollevato per l’esito felice della vicenda, «c’era da salvare una vita, lo scopo dell’operazione era giusto e nobilissimo», ma nei colloqui riservati Parisi ha sottolineato come «in certi casi un’azione positiva rischia di arrecare danni invece di dare benefici». È ovvio che l’esponente di governo ne abbia parlato solo con suoi pari grado, ma proprio per questo nelle conversazioni riservate ha posto il tema in modo netto: «Abbiamo trattato altre volte per salvare delle persone, ma lo abbiamo fatto con gli uomini giusti. Ed è stato lo Stato a farlo, sapendo fin dove era possibile spingersi, calcolandone gli effetti».
Gli effetti prodotti invece dall’atteggiamento del fondatore di Emergency, la richiesta — addirittura pubblicizzata — di allontanare gli uomini dei servizi, hanno sfregiato l’immagine dello Stato e trasmesso un pericoloso messaggio ai terroristi: «Rapiamo un italiano e vedremo esaudite le nostre richieste». Ben diverso è il volto della Germania che Angela Merkel ha mostrato quando ha detto — proprio davanti a Prodi — che il governo di Berlino non si piegherà al ricatto dei sequestratori dei tedeschi in Iraq. Parisi è rimasto «colpito» dalla fierezza del cancelliere, e il suo pensiero in quel momento si è rivolto «ai nostri militari in Afghanistan»: «Dopo quanto è successo, mi chiedo con che spirito potranno operare».
Una domanda retorica e terribile, che il ministro della Difesa si era posto e aveva posto ben prima di sapere del ferimento del soldato italiano nella provincia di Farah. Perciò ieri non gli hanno fatto piacere gli attestati di alcuni ministri, e anche quelli di autorevolissimi esponenti dell’opposizione: «Sono stanco di aver ragione il giorno dopo, quando già il giorno prima si intuisce come andranno le cose. La verità è che, ancora una volta, dinnanzi al contingente e all’emergenza, si è perso di vista il contesto generale». E nel contesto generale sono comprese appunto «la credibilità e l’immagine» del Paese a livello internazionale.
Il problema delle relazioni con gli alleati esiste, non lo ha sorpreso il modo in cui ieri Washington ha preferito sorvolare sulla gestione del sequestro di Mastrogiacomo, né lo hanno colpito la freddezza di Karzaj e il silenzio delle cancellerie europee. Non c’è dubbio che ci sia un problema di credibilità, e Parisi non dimentica il «caso Abu Omar»: «Quella storia — sostiene — ha danneggiato il nostro Paese», perché in un solo colpo ha causato lo smantellamento della struttura in Italia, ha distrutto la rete all’estero e ha incrinato il rapporto con i servizi di intelligence stranieri, che ora per tutelarsi diffidano degli 007 italiani.
Intanto in Afghanistan «sta cambiando la natura della nostra missione». Sono parole che Parisi pronuncia da tempo e che ieri D’Alema ha confermato, avvisando che «la guerriglia sta per arrivare a Herat, dove le truppe italiane dovranno affrontare momenti difficili». Se così stanno le cose servirebbe allora far chiarezza nel governo e nella maggioranza, «togliere quel velo di ipocrisia sull’articolo 11 della Costituzione, dove non c’è scritto solo che l’Italia ripudia la guerra ma anche che il nostro Paese è impegnato a operare per assicurare la pace». Altro che aggiungere un posto a tavola per i talebani e delegare a Gino Strada il ruolo dello Stato.