Dobbiamo saperlo. Berlusconi è disposto a tutto pur di non rimettere in discussione l’immenso potere di cui si è impadronito. Che cos’è lo Stato italiano? Questa è la grande domanda che ormai anche la destra moderata si deve porre. Le sorti di un Paese antico e civile abitato da 57 milioni di persone si decidono in Parlamento, con le leggi, oppure nelle abitazioni private dove il “principe” riceve i suoi cortigiani? Ma noi non stiamo assistendo a una ridicola farsa. C’è qualcosa di disperato nel delirio di onnipotenza di quest’uomo. E anche di molto pericoloso.
Resta il fatto che si sta chiudendo una intensa fase della politica italiana. Con l’uscita di Tremonti dal governo si è rotto un equilibrio di potere e un asse di governo. Si apre un grande vuoto. Chi lo riempie? Non c’è da stupirsi se il moderatismo italiano (che è grande) cerca una via d’uscita il più possibile indolore.
Mi colpisce invece che nella Margherita si riapra l’eterna discussione sul prendere o meno le distanze dai Ds per parlare al “centro”. Lascio da parte le ambizioni degli uomini. Provo ad avanzare una obiezione più di sostanza che è questa. Da quale idea dell’Italia prende le mosse questo bisogno di allentare il grande disegno unitario proposto da Prodi? Parlo dell’Italia reale che esce dagli anni del berlusconismo. Ovvero: come questa posizione pensa di rispondere alle nuove domande che vengono non dagli “sfigati” ma dalle forze centrali della società italiana rimesse in movimento?
Berlusconi non è stato una parentesi per cui dopo di lui viene meno il bisogno di mobilitare il Paese profondo in nome di una alternativa democratica. Berlusconi è stato ben più di un governo di destra. È stato una visione della società e degli italiani. Non ha fatto nessun colpo di Stato autoritario, ha però cambiato il modo di stare insieme degli italiani. Ha sommato il populismo, l’appello plebiscitario in nome dell’antipolitica con la rottura dei fondamentali legami sociali. Ha cambiato qualcosa di profondo nella Costituzione materiale. Si potrebbe dire, ripetendo una vecchia battuta, che l’articolo primo della Costituzione («la Repubblica è fondata sul lavoro») è stato sostituito con l’articolo “quinto” («chi ha i soldi ha vinto»). Ecco perché se questa è la realtà e con la quale dobbiamo misurarci, ricominciare a privilegiare le convenienze di partito rispetto al processo unitario avviato con la lista Prodi a me sembra un errore molto serio, perfino una mancanza di realismo. I problemi che stanno trascinando l’Italia fuori dalla cerchia dei Paesi che contano sono molto gravi e richiedono decisioni che non sono alla portata di una manovra neo-centrista basata sulla vecchia idea che la condizione per vincere è che la sinistra stia in una posizione subalterna. Discutiamola bene, questa questione. Senza orgogli di partito. Perché è vero che anche l’altra ipotesi, che è quella di mettere insieme tutti gli spezzoni della vecchia sinistra non è una risposta: dico una risposta di governo. Una sommatoria di forze minori – in aspra concorrenza tra loro – non in grado di allearsi col centro. In nome di quale progetto politico? In forza di quale rappresentanza del mondo del lavoro moderno?
Ma è altrettanto vero che il piccolo riformismo che cerca di inseguire i moderati sulla base di una visione dei problemi italiani e globali che è subalterna al dominante pensiero liberista, non è in grado di capire la novità della questione italiana. Che in poche parole a me sembra questa. Il Paese è di fronte a un problema molto chiaro anche se altamente drammatico: o c’è una forza (e una classe dirigente) capace di porre il suo sviluppo (economico ma anche civile, culturale, geo-politico) su nuove basi, oppure questo Paese declina.
Vorrei che fosse molto chiaro questo punto e quindi che cosa intendo per «porre lo sviluppo italiano su nuove basi». Berlusconi non ha raccontato solo barzellette. Ha vulnerato profondamente il tessuto connettivo della nazione. La sua politica è stata un continuo incitamento alla divisione. Ha usato la Lega per contrapporre il Nord al Mezzogiorno e per scardinare lo Stato come Stato di tutti, sia pure a base federale. Ha cercato di separare l’Italia dall’Europa. Ha invitato gli imprenditori a ripudiare la concertazione e a competere non sulla innovazione ma sulla riduzione del lavoro a precariato mal pagato e quindi a colpire il potere del sindacato. Ha fatto licenziare i Biagi e i Santoro e ha spinto gli intellettuali a riscrivere la storia d’Italia espungendo da essa l’antifascismo.
E si potrebbe continuare. Ma, dopotutto, il danno maggiore è l’aver calpestato quel patto non scritto che consente ai ricchi e ai poveri di stare insieme come cittadini di una stessa nazione: quel patto il quale dice che la legge è uguale per tutti e che gli affari di Stato non si possono confondere con gli affari privati.
Nella sostanza a me pare che il problema principale che questi anni ci consegnano è la rottura di quella cosa che io non so chiamare altrimenti che come il patto repubblicano: – un patto civile, non solo sociale – che dopo il fascismo, in pochi anni ha trasformato l’Italia in una grande potenza. Gli eredi di De Gasperi e Moro che stanno nella Margherita dovrebbero saperlo benissimo. E dovrebbero capire perché il dopo Berlusconi impone al centrosinistra di mettere in campo ben più che una intesa elettorale: una visione diversa del Paese, un progetto in cui gli italiani possano riconoscersi e ritrovare fiducia in se stessi. Insomma una guida anche morale. Qualcosa che non può venire da chi ragiona solo come un capo-partito.
Di che programmi parliamo se non partiamo dal fatto nuovo, grande come una casa, e cioè che il Paese è di fronte a un problema costituente? La realtà è questa. Occorre ridefinire le basi del nostro sviluppo storico dopo anni di una sorta di guerra civile strisciante che ha distrutto tanta parte di quell’immenso patrimonio civile, culturale e umano che è la vera risorsa degli italiani, il loro capitale sociale. Altro che ridurre le tasse ai ricchi. È la scarsa dotazione di beni pubblici (dalla scuola ai servizi, dalle reti di assistenza alla ricerca scientifica) che bisognerebbe accrescere, essendo questa (e non i condoni e le rendite finanziarie) la condizione per rimettere l’Italia in condizioni di competere. Questa è la scelta netta (tre punti di Pil) che bisognerebbe fare invece di massacrare il mercato del lavoro. Siamo ricchi abbastanza per farla ma ci vorrebbe una classe dirigente. E ciò perché per finanziarla bisognerebbe cambiare parecchio la distribuzione della ricchezza. Ecco allora il tema politico, non la chiacchiera politologica. Politico perché tutto ciò è impossibile senza un nuovo patto sociale e senza un soggetto politico forte, coeso, il quale sia in grado di ottenere il consenso necessario perché è portatore di un progetto e ha un’idea di futuro. Qualcosa di più – ripeto – della riunificazione di ex democristiani favorita magari da un ritorno alla proporzionale. E qualcosa di più della solita sfilata di leader politici che vanno in televisione a fare ciascuno la propaganda per il proprio partito.
Per concludere vorrei solo aggiungere qualche parola su di noi. Il futuro dipende molto dal grado di convinzione che i Ds dimostreranno di avere circa il fatto che parlare di grandi riforme è pura chiacchiera se non si costruisce un soggetto politico più largo e più forte. La sinistra non conterà nulla se non diventa una formazione europea capace di dare al vecchio Continente un’anima profonda e un progetto politico globale. Di che sinistra discutiamo se non partiamo dal fatto che siamo già usciti dai vecchi confini del movimento socialista ed operaio? La storia del riformismo moderno ricomincia da qui: dal sottrarre il governo della mondializzazione alle oligarchie finanziarie. E per quanto riguarda l’Italia ricomincia dalla necessità di porre lo sviluppo storico del Paese su nuove basi. Esattamente ciò che fecero Pci , Psi e Dc dopo il fascismo. Ciò che cercarono più tardi di fare Moro e Berlinguer. Ciò che riuscirono a fare agli inizi dell’altro secolo Giolitti e Turati.
Noi oggi ci riproviamo. E penso che dovremo andare avanti anche se mancasse il consenso di Rutelli. Si vedrà chi ha più forza “coalizzionale”. Io capisco gli interrogativi di molti compagni su quello che sarà il futuro e il ruolo specifico, autonomo, della sinistra di ispirazione socialista. Me li pongo anch’io. Mi rispondo con l’insegnamento di quel vecchio capo comunista secondo cui l’identità di un grande partito politico è nulla di più e nulla di meno della sua funzione storica. È il suo ruolo nella vita nazionale. Per questo penso che mettere questo nostro partito al servizio non – per carità – di una nuova invenzione politologica (ne abbiamo visto delle belle ma per fortuna – grazie molto a Fassino – siamo sopravvissuti) ma, al contrario, di un progetto di rinascita nazionale, non significa affatto sciogliere le file o consegnare ad altri la bandiera del socialismo. Cioè il diritto di pensare il mondo e di pensarlo diverso da quello attuale. E, soprattutto di farlo.