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17 Agosto 2005

La sinistra gli affari e la politica

Autore: Giuseppe Berta
Fonte: La Stampa

Fra gli elementi più gravi che l’intreccio di interessi alla base delle scalate all’Antonveneta e alla Bnl sta mettendo in rilievo vi è certamente la crescente distanza della sfera degli affari, oggi al centro dell’attenzione del sistema politico, rispetto ai mutamenti che stanno avvenendo nel vivo dell’economia italiana, nell’organizzazione delle imprese, nel tessuto delle relazioni che uniscono fra di loro i settori e le varie attività. Quando, agli inizi degli Anni Novanta, si sollecitava l’urgenza di una moralizzazione della vita pubblica, denunciando la rete di connivenze instauratasi fra i partiti e alcuni gruppi imprenditoriali, vi era nella politica italiana chi diceva di volersi far carico della rappresentanza di quelle forze economiche sane e dinamiche che sopportavano la conseguenza della distorsione di risorse operata dai meccanismi della corruzione. Era l’epoca in cui si era da poco affacciata la «questione settentrionale», che veniva agitata nel nome di una necessaria rivincita della parte vitale dell’economia del Paese, il cui ruolo era offuscato e mortificato da un impasto di corruzione e clientelismo finanziariamente insostenibile.


È fin troppo facile constatare come sia mutato l’atteggiamento dei soggetti politici. Ora è la Lega Nord a difendere il governatore Fazio e la Popolare di Lodi, mentre tutti i partiti cercano di definire i loro rapporti e le loro posizioni rispetto ai protagonisti economici del 2005, cioè il gruppetto degli «immobiliaristi», Giovanni Consorte, Emilio Gnutti e così via. Sui giornali, gli effetti politici delle intercettazioni telefoniche hanno ripreso subito il sopravvento, dopo che per un giorno ci si era interrogati, sulla scorta dei rilievi Istat sull’andamento del Pil, a che punto si fosse col problema del declino: quello 0,7 per cento di crescita va preso come un «rimbalzo tecnico», come hanno detto alcuni commentatori, o è un ulteriore segnale di un processo magmatico alla base del nostro assetto economico? Conferma o no l’esistenza di un margine per correggere la nostra performance e la nostra rotta?


Di tutto questo c’è ben poca traccia nel confronto politico. Prendiamo quanto dice Piero Fassino, che bada sempre a ribadire le sue radici nel Nord produttivo e il suo attaccamento all’industrialismo («Vengo da Torino, sono cresciuto nel culto della fabbrica e continuo a pensare che senza un’industria forte non c’è un Paese forte», intervista di Dario Di Vico nel Corriere della Sera del 14 agosto). Il segretario dei Ds rivendica il fatto di essersi sempre occupato di economia e dei mezzi per offrire ad essa una valida sponda politica, da quando si assumeva un compito di moderazione nei conflitti di lavoro come responsabile delle fabbriche nel Pci torinese fino all’apprezzato lavoro svolto come ministro per il Commercio con l’estero.


Ma appoggiare i piani di espansione dell’Unipol di Giovanni Consorte non è proprio la stessa cosa. Il dialogo fitto intrattenuto con la scalatore della Bnl, al di là dei suoi contenuti, costituisce qualcosa di più di una necessaria informazione su quanto sta avvenendo in alcune strutture portanti dell’economia. Una simile attenzione può essere usata come un avallo, da parte del vertice dei Ds, a operazioni che, comunque le si interpreti, rivelano un indubbio grado di spregiudicatezza, sia per le forme con cui vengono condotte sia soprattutto per gli operatori che coinvolgono, con il loro evidente profilo speculativo.


L’economia italiana non ha bisogno di nulla di tutto questo per superare il difficile tornante in cui è impegnata. Ha ragione Fassino nel dire che la finanza non deve essere demonizzata e che costituisce uno strumento indispensabile. Ma non sarà la leva finanziaria azionata dagli homines novi affacciatisi con una buona dose di protervia sulla scena economica che farà crescere quelle imprese – e non sono poche – potenzialmente capaci di divenire un nuovo motore dello sviluppo. Il sospetto fondato è anzi che le grandi manovre speculative di questi mesi rafforzino posizioni di rendita, penalizzando gli agenti e i fattori reali di crescita.


Se l’Unione ha davvero l’intenzione di smentire i severi giudizi espressi dalle agenzie di valutazione internazionale sull’Italia e la sua classe politica deve tornare a guardare a un mondo economico e imprenditoriale che non vuole muoversi nell’ambiguo viluppo di rapporti tra politica, affari e informazione. Che non va alle ricerca di scorciatoie sulla via della crescita all’ombra di tutele e di protezioni forti. Che formula piani di sviluppo credibili, commisurandovi le risorse effettive. Come ha notato Giuliano Amato (la Repubblica, 13 agosto), i mezzi ingenti di cui dispone il sistema delle cooperative possono essere usati per scopi migliori che la scalata a una banca.

Ma perché tutto questo sia possibile occorre che la politica torni a fare i conti con l’economia reale. Anzitutto per comprenderne le esigenze, prima di pretendere di indirizzare i suoi percorsi. E poi, in special modo, per mettere al centro della propria visione dello sviluppo una condizione civile in cui i capitali non si raccolgono e non si mobilitano mediante i buoni uffici di governatori, ministri e segretari di partito.