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21 Febbraio 2006

La prima copia di Repubblica

Autore: Eugenio Scalfari
Fonte: la Repubblica
La sera del 13 gennaio di trent´anni fa prendemmo insieme, dal nastro che
aveva appena cominciato ad uscire dalla bocca della rotativa, le prime copie di
Repubblica. Erano copie di scarto, coi caratteri ancora sfocati e gli operai si
affannavano attorno alla macchina per regolare l´impressione degli inchiostri
sulla carta che si svolgeva dalla bobina. Ma ci davano comunque l´immagine del
giornale che la mattina dopo avrebbe cominciato ad entrare nelle case di molti
lettori. Poi il nastro sfornò copie buone e la macchina girò alla sua massima
velocità. Intorno c´era tanta eccitazione e tutti i compagni di lavoro che
avevano preparato i numeri zero e guidavano i vari settori del giornale. Lui mi
disse «ce l´abbiamo fatta» e gli occhi gli brillavano.
Adesso che non c´è più, dopo un lunghissimo tormento e una lotta coraggiosa
col male che l´ha devastato, la mia memoria si è fermata su quell´immagine e me
lo restituisce com´era allora, nel pieno della vigoria fisica e mentale,
gioioso, alacre, identificato con un progetto che avevamo coltivato insieme ad
altri quattro o cinque amici, non più di tanti, e che infine quella sera si era
realizzato.
Ma se frugo nella memoria alla ricerca di altre immagini e di altri
momenti, ne trovo tanti che mi scorrono dinanzi agli occhi come un film. Gianni
nel suo box di caporedattore al quarto piano del palazzo di piazza Indipendenza
che corregge articoli e passa le agenzie. Gianni che parla al telefono con gli
inviati e i corrispondenti. Gianni in casa sua che si riposa dalle fatiche della
giornata suonando la batteria dei tamburi e dei piatti a tempo di jazz. Gianni
che mi porta il bozzone della prima pagina per il controllo finale. Gianni che
si arrabbia con un capopartito o con un ministro e lo redarguisce perché sta
commettendo qualche ingiustizia o si sta coprendo con qualche evidente
ipocrisia.
Quando capitava – e capitava spesso – che dovessimo prendere una decisione
azzardata, pubblicare una notizia che avrebbe suscitato reazioni e polemiche,
iniziare una campagna che avrebbe disturbato interessi potenti, mi avvertiva dei
rischi che quella scelta comportava ma poi aggiungeva: però dobbiamo farlo, su
queste cose non possiamo tacere, proprio per questo abbiamo fatto il
giornale.
Erano anni di fuoco quelli, ma ora non so nemmeno più di quali anni sto
parlando perché non c´è mai stato un momento di quiete in questi trent´anni. O
forse eravamo noi che non riuscimmo mai ad essere disincantati e continuavamo ad
esser passionali pur avendone viste tante, di belle e di brutte.
All´inizio di questo lungo sodalizio, quando arrivò il momento per lui di
lasciare una posizione di alta responsabilità e tornare al giornalismo
militante, mi disse: «Io, per dare il meglio di me, ho bisogno di una persona
alla quale affidarmi con piena fiducia. Adesso mi affido a te. Fino a quando tu
dirigerai il giornale io sarò al tuo fianco nel ruolo che vorrai affidarmi.
Quando te ne andrai io me ne andrò con te».
Così è avvenuto ed è durato vent´anni durante i quali abbiamo messo in
comune un progetto, un lavoro, idee, speranze, timori, simpatie, furori, stile.
Vivendo insieme dieci ore al giorno. All´inizio eravamo in sessanta, alla fine
più di quattrocento.
La vigilia di ogni Natale brindavamo coi colleghi dell´ufficio centrale e
poi, lui ed io, con una bottiglia di spumante sotto il braccio e un bicchiere in
mano facevamo il giro di tutti i servizi, dal sotterraneo fino al quarto piano,
perché tutti sentissero quello che noi sentivamo: che Repubblica era più di un
luogo di lavoro, più di un giornale, era una grande famiglia nella quale chi
entrava a farne parte non ne usciva più. Infatti ne sono entrati tanti e quelli
che ne sono usciti sono stati pochissimi.
Gianni Rocca è stato per moltissimi non solo il caporedattore degli inizi,
poi il vicedirettore e infine il condirettore, ma soprattutto un fratello
maggiore al quale si può ricorrere, col quale ci si confida e dal quale si
accettano critiche e pungolo professionale.
La lunga e tormentosa malattia che infine l´ha prostrato non gli aveva
tolto la passione politica, l´attaccamento alla quotidianità e soprattutto il
senso morale del giusto e dell´ingiusto che gli è stato sempre di guida.
L´ultima volta che ci siamo parlati mi ha detto: «Ormai non posso più
fissarmi appuntamenti a lungo termine con la vita. Mi aiuto con traguardi brevi,
danno ancora un senso al tragitto che mi resta. Ora vorrei passare la Pasqua con
te in campagna e poter votare il 9 aprile». Ci ridemmo sopra, io gli dissi:
certo, lo faremo. Ma sapevamo tutti e due che non sarebbe stato così.
Era un laico non credente, Gianni Rocca. Con un profondo senso di
religiosità e rispetto per la vita e per il senso della giustizia,
dell´eguaglianza e della libertà. Poco prima che il male lo cogliesse ha scritto
il suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori in edizione fuori commercio e l´ha
intitolato Che secolo, ragazzi… dedicato ai due nipoti; il lungo racconto in
gran parte autobiografico del secolo lungo che abbiamo alle spalle ma che in
realtà dura tuttora. Si apre con una citazione di Gadda: «Solo quello che ha
portato attimo per attimo la pena del viver proprio potrà tenersi biografo di
sé».
Oggi lo salutiamo per l´ultima volta. Lacrime, lacrime…