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7 Febbraio 2007

La politica dell’immagine

Autore: Guido Rampoldi
Fonte: la Repubblica

Se
stiamo alle parole si direbbe che le relazioni tra Roma e Washington
all´improvviso siano diventate tese come non lo erano dai tempi di Sigonella.
Prima l´appello di sei ambasciatori, in testa lo statunitense, che dalle pagine
di Repubblica si rivolgono direttamente agli italiani perché intendano le
ragioni della missione Nato in Afghanistan. Ieri l´altolà di D´Alema, affidato
a una rude lettera ai sei governi per censurare l´«inopportuna interferenza».

Gongola
Berlusconi, si fregano le mani quei settori moderati che da tempo lavorano al
progetto di disarcionare Prodi. Eppure questi entusiasmi sembrano fuori posto,
o perlomeno prematuri. Anche se si può dubitare che l´incidente sia chiuso,
come assicurava ieri la Farnesina, presto gli americani si renderanno conto che
le loro apprensioni al momento sono eccessive. Non che il rifinanziamento del
contingente italiano non resti un problema spinosissimo per il governo. Ma
l´Afghanistan di cui la maggioranza discute, da settimane e nel modo più
convulso, non è la terra che la geografia situa tra l´Iran e il Pakistan.
Piuttosto, è un luogo della politica italiana. Uno spazio dove molta sinistra
radicale intende definire i rapporti di forza tanto nella maggioranza quanto
nell´area comunista, sovraffollata da partiti, fazioni e consociazioni in
fieri. Abbiamo un governo pacifico o pacifista? A quanti parlamentari, a quanto
elettorato può aspirare questo o quel progetto di ristrutturazione della
sinistra? Quanto conta la fronda a Bertinotti? Argomenti non privi d´interesse:
ma non andrebbero sovrapposti alle questioni grandi e serie in gioco
nell´Afganistan reale. Non fosse altro perché la diplomazia anglosassone si
confonde. Prende alla lettera quel che dicono i comunisti. Non capisce perché
il rifinanziamento della missione debba dipendere da un «segnale di
discontinuità», quasi che il problema sia salvare l´immagine della sinistra
radicale, non l´Afghanistan. Possibili “segnali di discontinuità”
sarebbero l´impegno ad una conferenza internazionale (ma le conferenze
internazionali s´indicono solo quando vi sono le condizioni perché riescano,
altrimenti risultano perfino dannose); oppure l´acquisto dell´oppio afgano per
destinarlo all´industria farmaceutica (ma dove i soldati britannici comprarono
il raccolto di papavero, l´anno seguente le coltivazioni illegali s´erano
estese).

Che
interventi dall´esito così incerto diventino condizioni alla permanenza
italiana in Afghanistan è bizzarro ma politicamente utile, se questo
permettesse all´ala sobria di Rifondazione di convincere il resto della
sinistra radicale a rifinanziare la missione. E poiché quel risultato sembra
possibile, probabilmente resteremo in Afghanistan, sia pure nella retrovia,
così come altri contingenti. In sostanza i soldati italiani lascerebbero ad
altri l´onere di combattere i Taliban e di rischiare la pelle. Inevitabilmente
avrebbero scarsa influenza sulla strategia della Nato e alcuna sulla conduzione
dello scontro militare. Ma l´Italia continuerebbe a dare un contributo alla
missione. E la maggioranza sarebbe salva. Questo nella teoria.

Nella
realtà le cose potrebbero andare diversamente. Se in primavera i Taliban
mettessero in difficoltà la prima linea della Nato, eventualità da non
escludere, il comando delll´Alleanza atlantica avrebbe diritto a impiegare in
battaglia qualsiasi contingente, sia pure in extremis, così come prevede
l´accordo del dicembre scorso. Roma potrebbe opporre i cosiddetti caveat, cioè
le particolari regole d´ingaggio decise da alcuni governi per sottrarre i
propri soldati al rischio d´essere coinvolti nei combattimenti. Ma non è
immaginabile che gli italiani, chiamati in extremis a soccorrere un altro
contingente, si sottraggano a un dovere elementare. Il loro intervento forse
verrebbe taciuto all´opinione pubblica, così come le venne taciuto che i piloti
italiani partecipavano agli attacchi della Nato sulle postazioni serbe in
Kosovo. Ma se qualcosa trapelasse, il governo Prodi rischierebbe una crisi.

Non
è detto che vada così. Però è indubitabile che su questioni centrali alla
politica estera la maggioranza resterà esposta ad ogni colpo di vento. E questo
è un rischio per l´Italia. Affrontare un futuro turbolento con una coalizione
appesa alle smanie di trozkisti, ultrapacifisti e rosso-verdi, è come sperare
di doppiare Capo Horn con un veliero che geme e scricchiola ad ogni ondata.
Potrebbe andare bene, se una fortuna sfacciata tenesse lontane le burrasche. Ma
se finissimo disalberati nel mezzo d´una tempesta, sarebbero guai seri. E a
giudicare dalla progressione degli eventi nella regione compresa tra Gaza e
Kabul, una bonaccia è assai improbabile. Dall´invasione dell´Iraq ad oggi,
laggiù il disordine e l´instabilità non hanno mai smesso di aumentare. Quel che
è peggio, in Occidente nessuno sa bene cosa fare. La crisi di idee e di
strategie è tale che l´unica proposta per l´Iraq finora prodotta a Washington
dai Democratici è ritirare le truppe e agevolare la tripartizione del Paese,
cioè arrendersi al massacro e ad una guerra civile di lunga durata destinata a
tracimare oltre i confini iracheni.

Così
come negli Stati Uniti, la tentazione di defilarsi cresce anche nell´Europa
impegnata in Afghanistan. La gran parte dei governi europei coinvolti nella
missione Nato ha lasciato cadere le richieste sia di mandare altri soldati sia
di combattere nel sud al fianco dei contingenti anglosassoni. Parigi è
scettica, Berlino dubbiosa, Madrid palesemente sfiduciata. In un clima così
depresso una defezione dell´Italia potrebbe avere un effetto dirompente su una
missione in cui l´Alleanza atlantica si gioca credibilità, ruolo, futuro.
Dunque non sorprende che a Washington e a Londra si siano allarmati quando in
Italia la sinistra radicale ha cominciato a vociare i «ci vuole
un´exit-strategy» e «scappiamo da quella palude». Forse c´è stato un
cortocircuito tra il semplicismo americano e il bizantinismo della politica
italiana. Ma di sicuro oggi non è immaginabile che il nucleo duro della Nato
assista a braccia conserte ad uno svuotamento della missione in Afghanistan e
ad uno sfarinamento dell´Alleanza atlantica a partire da un Paese dove
americani e britannici hanno obiettiva influenza, l´Italia. A ben vedere è
questo il messaggio scritto tra le righe del singolare appello lanciato da sei
ambasciatori e platealmente difesa dal Dipartimento di Stato.

Così
deve averlo letto Romano Prodi, se ha ragione Francesco Cossiga quando racconta
che alla fine del 1998 Prodi perse Palazzo Chigi anche perché gli americani non
lo ritenevano idoneo a condurre l´Italia alla guerra del Kosovo. E così l´ha
interpretato il Polo, che da giorni ammicca senza pudore a Washington. Chi però
ha a cuore le sorti di questo Paese non avrebbe ragione per sentirsi
rassicurato da un premier di nuovo subalterno all´amministrazione Bush proprio
mentre Washington minaccia d´avvitarsi in un conflitto strisciante con l´Iran.
L´Italia rischierebbe di pagar caro l´ossequio alla Casa Bianca, difficilmente
conciliabile, per esempio, con una politica energetica fondata sull´«alleanza
strategica» appena siglata dall´Eni con Gazprom, cioè con la Russia di Putin,
cioè con un grande fornitore della missilistica iraniana.

Quale
che sarà il futuro, scommetteremmo che la politica estera resterà un´appendice
della politica interna: questo non è degno d´un Paese serio. D´Alema sostiene
che il problema nasce dal provincialismo non solo della classe politica ma
anche del giornalismo, insomma di gran parte della classe dirigente. Gli si
potrebbe obiettare che il governo non è innocente: salvo Parisi in questi mesi
i ministri hanno ritenuto prudente rinunciare a spiegare al Paese le ragioni
per le quali è giusto restare in Afghanistan; e chi avesse cercato quelle
ragioni le avrebbe trovate più facilmente in Al Jazeera International, la
sorella proba dell´Al Jazeera araba, che nei programmi della Rai, dove l´Ulivo
ha influenza. Però D´Alema ha ragione: per cause storiche e culturali abbiamo
una classe dirigente restia non solo a pensare la politica estera nei termini
dell´interesse generale, ma perfino a coltivare curiosità per il mondo.
Potremmo spiegare a questo modo perché gran parte di quanto è stato detto e
scritto in Italia negli ultimi sei anni a proposito dei grandi temi della
politica estera, riletto oggi confermi le due righe lapidarie che aprono un
saggio del filosofo Harry Frankfurt: «Uno dei tratti salienti della nostra
cultura è la quantità di corbellerie (bullshits) in circolazione». Applicando
la tesi di Frankfurt dovremmo concludere che in Italia si parla a vanvera di
Afghanistan, come ieri dell´Iraq, non perché la politica o il giornalismo
mentano callidamente ma perché spesso non hanno alcun interesse alla verità:
amplificano, omettono o inventano a seconda delle convenienze, delle attese del
mercato, delle richieste della committenza.

Se
questo è vero allora sarebbe urgente applicare al dibattito sulla politica
estera il metodo detto “consequenzialismo”: si giudichino proposte ed
azioni non per il colore ideologico o le intenzioni dichiarate, ma in base a
quel che concretamente ne consegue. Cosa accadrebbe se la Nato abbandonasse
oggi l´Afghanistan? Chi potrebbe evitare che i Paesi confinanti tornassero a
sbranare il Paese come in passato? Quali rischi proietterebbe sul Pakistan e
sulla regione un Afghanistan talibanizzato? Quanto costerebbe all´Italia
sfilarsi dall´Alleanza atlantica, quanto ricostruire un sistema di difesa? E
ancora: quanti militari italiani sono morti perché costretti a fingere che
Nassiriya non fosse un teatro di guerra? Cosa ha prodotto l´invasione
dell´Iraq, di cui il Polo fu entustiastico sostenitore? Quanti ne ha ammazzati
il pacifismo in Bosnia? Saranno pure domande insolenti, ma se cominciassimo a
rispondere molte cose diventerebbero più chiare. Forse anche ad alcuni
ambasciatori.