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26 Marzo 2007

La nuova road map della Ue a due volti

Autore: Andrea Manzella
Fonte: la Repubblica

VOLA alto la Dichiarazione della Merkel, l´Angela sopra Berlino. Ma, le parole non nascondono le difficoltà e, da sole, non riusciranno a tirar fuori l´Unione Europea dalla crisi di autostima che l´ha colta ai suoi 50 anni. C´è uno scarto forte infatti tra quello che la non-Europa vede nell´Unione e quello che l´Unione pensa di se stessa. Di come ci vedono gli altri, dal di fuori, e di come ci vediamo noi, dal di dentro.

Prendiamo l´economia, da dove abbiamo cominciato, mettendo insieme le energie che prima ci servivano per farci le guerre: il carbone e l´acciaio. Da fuori, guardano all´Unione come ad un attore mondiale. Prima potenza commerciale (una quota del 19 per cento, contro il 14 degli Stati Uniti, il 9 della Cina).

Grande potenza produttiva (un quarto del prodotto mondiale). Prima potenza finanziaria (una quota del 70 per cento dei flussi di capitale globale). Da dentro, vediamo il declino della grande impresa europea (le ultime vicende Airbus sono un allarme per l´Unione e non solo per Francia e Germania), le delocalizzazioni verso l´Asia a basso costo, i ritardi e gli intralci nell´economia della conoscenza.


Prendiamo la politica internazionale. Da fuori, vedono l´Unione come attore capace di grandi mediazioni nelle crisi mondiali, l´altra idea dell´Occidente. Vedono la prima donatrice di aiuti allo sviluppo dei paesi poveri. Vedono perfino ­ negli sforzi e nelle prime realizzazioni della difesa europea ­ un segno di indipendenza non disarmata: ma senza minacce per nessuno.

Da dentro, pesano ancora le lacerazioni che ci furono sulla guerra in Iraq (la artificiosa contrapposizione tra «giovane» e «vecchia Europa»). Pesano le resistenze a cambiare la struttura del consiglio di sicurezza dell´Onu per poter parlare con una voce sola europea. Così ci sentiamo molto più fuori dal gioco mondiale di quanto il mondo abbia bisogno di noi.


Prendiamo le istituzioni. Da fuori vedono una cosa che non si era mai vista al mondo. Ventisette Stati-nazione che limitano la propria sovranità in campi sempre più estesi e sempre più delicati: la sovranità dei confini, dei parlamenti, dei giudici, della moneta. Vedono un sofisticato meccanismo a più livelli di governo, con un intreccio di legittimazioni.

La legittimazione democratica del Parlamento europeo, quella tecnica delle autorità indipendenti (la Banca centrale, l´autorità antimonopoli, la stessa Commissione europea). Vedono un comporsi e ricomporsi delle decisioni prese all´unanimità tra i governi e quelle prese a maggioranza. Vedono, insomma, per la prima volta, e cercano di imitarlo (in Asia, in America Latina, nel grande spazio Canada-Usa-Messico…) il primo modello di istituzioni della sovranazionalità.

Da dentro, invece, non riusciamo ad andare oltre il vecchio Stato. Ci sentiamo insicuri, persi i vecchi gusci, i vecchi scudi. E così inventiamo il «deficit democratico». I poveri cittadini «lontani» dalle istituzioni europee.

Eppure, ormai per mille oggettivi legami economici e giuridici, ogni elezione locale è anche un´elezione «europea». E, viceversa. Le decisioni di Bruxelles diventano subito, per circolarità, anche decisioni «locali». Ma la voglia di alibi si assomma ad un vero deficit ­ questa volta culturale ­ dei rappresentanti a tutti i livelli: incapaci di vedere la «rete».


Ecco, se leggendo la Dichiarazione, partiamo da questo incredibile scarto tra il «di fuori» e il «di dentro» dell´Unione possiamo capire che il nostro primo problema non è la trasformazione del sistema istituzionale europeo. La questione più urgente è quella delle connessioni al suo interno.

Se ritorniamo all´economia, nelle grandi istituzioni internazionali ­ dal Fondo monetario al G7 ­ la somma delle rappresentanze nazionali europee sarebbe quasi sempre decisiva se potesse esprimersi con una sola voce verso l´esterno. All´interno, la politica monetaria della Banca centrale sarebbe molto più amica di una crescita equilibrata, se gli Stati nazionali ­ almeno quelli che hanno l´euro ­ dessero vita ad una comune politica economica. Se riuscissero ad avere voce nelle decisioni di cambio. Se fissassero un piattaforma minima del reddito imponibile.

Insomma i legamenti che mancano e che magari dall´esterno non si vede che mancano. La Dichiarazione li vede: il modello europeo deve «unire successo economico e responsabilità sociale».


Queste interconnessioni non hanno, come è ovvio, solo valore economico. Sono anche quelle necessarie per fare dell´Unione una potenza con maggiore influenza sulla scena politica internazionale. Avere un servizio diplomatico comune, avere un ministro degli esteri comune ­ come prevede il Trattato costituzionale in sofferenza dal 2004 ­ certo sono cose che servono per far maturare posizioni comuni.

Ma la sostanza politica dell´Unione sarà pur sempre quella che risulterà dal suo peso geopolitico economicamente rilevante per il resto del mondo. Sostenuto da una capacità di sicurezza ­ forze interne, forze esterne ­ mantenuta con risorse adeguate alla preoccupazione dominante dei suoi cittadini.

Ma sempre con un intimo legame militare-civile nel far fronte alle crisi, come quella lancinante del Darfur segnata a dito dagli intellettuali europei. Non a caso la dichiarazione parla di un´Unione «al di là dei suoi confini» per «favorire la democrazia, la stabilità, il benessere».


Nello stesso ordine costruttivo, quello che è già materialmente un ordinamento costituzionale europeo ha più bisogno di procedure di connessione (ponti, passerelle) che di procedure di trasformazione. I collegamenti tra Parlamento europeo, parlamenti nazionali, autonomie regionali e locali.

Il movimento, in su e in giù, dell´ascensore della «sussidiarietà»: per far decidere il governo territoriale di volta in volta più adatto alla dimensione e all´efficacia dell´intervento. Il coordinamento tra la gestione della moneta europea e le responsabilità politiche dell´Unione verso il mondo: cioè la stessa possibilità di «governare» la globalizzazione. Per questo la Dichiarazione afferma il dovere di «rinnovare di continuo la forma dell´Europa in conformità ai tempi».


Nella road map verso una «rinnovata base comune» entro il termine del 2009 (il dato politicamente più stringente della Dichiarazione) il «navigatore» dovrebbe segnalare questi punti di consolidamento e di legatura. E la procedura più ragionevole e meno dispersiva sembra ora la riedizione di un «atto unico europeo» (come nel 1986).

Uno strumento che darebbe tre garanzie. 1. Mantenere come base il testo firmato da tutti i governi a Roma nel 2004 (garanzia per i diciotto paesi che hanno già ratificato). 2. Aprire alle modifiche e agli snellimenti nel quadro però degli «equilibri» del trattato (garanzia per i colpiti dai referendum e per i «pentiti» della firma). 3. Aprire, soprattutto alle proposte che si sono affermate nella pausa di riflessione. Quella di un´autorità per l´energia. Quella di una politica ambientale vincolante. Quella di un nuovo protocollo sociale (e sarebbe questa la garanzia per i riformisti).


La Dichiarazione che è volata sopra Berlino, con parole chiare e solenni, può leggersi anche così. Come programma per chi sta passando la linea d´ombra della maturità e cerca una nuova autostima: in armonia con la visione dall´esterno. Naturalmente, c´è chi non vuole leggerla così e la ritiene solo una «vuota» dichiarazione che lascia tutti i contrasti reali.

Può certo farlo. Ma allora deve rassegnarsi a restare nella retroguardia: dove non si rischia nulla, salvo la speranza. Perché, come dice la Dichiarazione, «oggi noi viviamo insieme come mai era stato possibile prima, uniti nella nostra fortuna»…