28 Luglio 2005
La metamorfosi del pio funzionario
Autore: Filippo Ceccarelli
Fonte: la Repubblica
«FUGE rumores», evita le chiacchiere: lo invocava a suo tempo il governatore della Banca d´Italia Donato Menichella. Ironia della sorte, è stato proprio il suo successore Antonio Fazio a ricordarlo, non molto tempo fa, delineando l´aureo, ma disagevole imperativo secondo cui su quella poltrona non si potevano dire le cose vere, però era anche doveroso non dire bugie.
E dunque: fuge rumores, fuggi ogni occasione che possa suscitare mormorii, pettegolezzi e maldicenze. Negli anni del suo lungo regno a via Nazionale Carlo Azeglio Ciampi estese il precetto allo stile di vita dei dirigenti. Voleva dire, in concreto: prudenza con le automobili di lusso, con le donne troppo vistose.
Attenti alle frequentazioni rischiose, astenersi dalle comunelle e dai locali notturni. Di queste norme para-monacali è vissuta a lungo la Banca d´Italia – e con il senno di poi si può ritenere che abbiano contribuito a creare il mito di un´istituzione tanto più inviolabile quanto più modellata come santuario della finanza, tempio della moneta, turris eburnea.
Da questo particolare punto di vista, la telefonata notturna e intercettata, il bacetto virtuale del banchiere, l´invito a passare per la porta di dietro, lo stesso ruolo telefonico della signora Fazio, ecco, tutto questo appare devastante nell´immediato, ma forse segna la conclusione definitiva di un ciclo storico e forse perfino antropologico.
Eppure, l´esaurirsi di un canone d´eccellenza lascia intatto l´enigma del governatore. Il quale fu scelto nel 1993 per il suo profilo di funzionario modesto, corretto, austero, coriaceo e riservato, ma che nell´arco di una dozzina d´anni ha visto rovesciare questa sua immagine fino a rendersi irriconoscibile. Una metamorfosi che si è tentati di spiegare con le categorie dell´umanità.
Era pio, Fazio, e l´hanno ribattezzato «Pio tutto»; era attaccatissimo al suo paesello in Ciociaria, e più di una volta negli ultimi tempi la quiete di Alvito è stata rotta da giornalisti eccitati, tapirofori ossessivi, cardinali benedicenti e poliziotti alle prese con decespugliatori scambiati per ordigni micidiali.
Era il guardiano della soglia di via Nazionale, e come in un incubo pagliaccesco quella sede è stata accerchiata da consumatori travestiti da barattoli di pomodoro. Pure sull´esposizione del tricolore ci sono stati problemi: i sindacati interni sono esasperati, non lasciano passare più nulla, «ci prendono in giro anche nei programmi di Simona Ventura» protestano. Chissà se oggi Veltroni direbbe più che la Rai doveva diventare come la Banca d´Italia.
Quasi non si conosceva, la famiglia del Governatore. O meglio, quel poco che si sapeva era ben compreso in una cornice di serena normalità italiana, provinciale. Poche foto rassicuranti. La moglie assai misurata nel vestire e dedita alla famiglia e alla beneficenza; i cinque ragazzi sorridenti e a posto, niente grilli per la testa. Per le figlie una sola ribalta all´anno, quando sceglievano la cravatta regimental del papà il giorno dell´assemblea annuale.
E adesso invece si scopre d´un tratto che la signora Cristina è così addentro alle confidenze del credito da lasciarsi chiamare «tesoro» dal banchiere di famiglia; che il figlio Giovanni, un bel ragazzo già segnalato a bordo di macchinone color argento metallizzato con autista, ha pure partecipato alle Mille miglia d´epoca con Chicco Gnutti; che la figlia Maria Teresa non solo scrive sul giornale della banca di Fiorani, ma qui dedica un ritratto a un certo sacerdote, don Ginami, molto addentro al mondo finanziario, oltre che segretario del cardinal Re.
E però. Dalla saga di Leone fino ai guai di De Mita, cioè lungo un arco che copre un ventennio di nomenklatura democristiana, la famiglia, la casa, le vacanze, il paesello, gli amici più o meno favoriti, le lusinghe del prestigio, la vanità dell´apparire sono un fattore di «rumores» e di delegittimazione, come s´è visto, di cui nessun potente alla lunga può fare a meno di preoccuparsi.
E invece l´impressione è che tutto questo armamentario che gli recava in dote la carica, Fazio, che è un bel democristianone, l´abbia ritenuto una specie di premio o forse – il che può anche essere peggio – addirittura un risarcimento. E comunque l´ha messo in gioco, ha cominciato anche lui a voler primeggiare, si è sentito indicare per mille cariche, e con lui la famiglia, gli amici, i collaboratori.
Con il che, se non suonasse un po´ sprecato, e forse vanamente moralistico, si potrebbe adattare al personaggio del governatore quel che Tacito scrisse dell´imperatore Tiberio: «Vi dominationis mutatus et convulsus». Ossia: cambiato e stravolto dalla forza irresistibile del potere.
Ma anche senza scomodare i classici, varrà la pena di segnalare che Cossiga, che di queste faccende se ne intende e con il governatore ha da qualche anno rapporti come minimo altalenanti, ha parlato di «un certo delirio d´onnipotenza»; a suo giudizio Fazio, privato delle sue prerogative dalla nascita dell´euro, «cerca di acquisire potere politico in forme fanciullesche».
E´ difficile dire se la diagnosi cossighiana abbia un qualche fondamento. Ma certo non si poteva pensare che l´uomo di Alvito sarebbe rimasto lo stesso dopo l´entrata trionfale nel salotto Angiolillo, dopo i pranzi e le cene con Berlusconi, dopo il pellegrinaggio a Santiago di Compostela sull´aereo di Geronzi.
Perché il potere è davvero una bestia raffinata, e infatti richiede lectiones su San Tommaso, assegna lauree honoris causa in teologia morale, produce inviti all´anteprima della fiction su Madre Teresa di Calcutta. Però pretende per sé anche la passeggiata con Fiorani, sotto i portici di Lodi. A braccetto: per la maestà delle chiacchiere, la potenza dell´equivoco e la gloria del sospetto.