Non è semplice rispondere, per chi non ha mai accettato la scorciatoia di dar la colpa delle sconfitte all'”insensibilità” degli elettori, al Paese sordo e cieco. La politica ha sempre spiegazioni e persino ragioni, per quanto scomode, amare e qualche volta sbagliate. In questo caso le spiegazioni vengono da lontano. Fin da quando si è spaccato il sistema nel 1992, è affondata la prima Repubblica e Berlusconi è riuscito a presentarsi come “uomo nuovo” – e dunque possibile erede ed interprete della doppia spallata portata al vecchio mondo dalla Lega e da Mani Pulite: proprio lui che era figlio naturale e diretto del Caf, l’ ultima agonia politica della prima Repubblica, lui che deve la sua fortuna di imprenditore televisivo alle leggi ad personam di quel governo amico, lui che nei congressi socialisti aspettava Craxi nello stanzino di compensato sotto il palco, come un socio appartato ma affettuoso, o un parente-controllore, trepidante e interessato.
Poi c’è la storia che tutti conosciamo: il blitz trionfale del Cavaliere nel 1994, la sua incapacità di governare sia il Paese che la sua stessa maggioranza, la vittoria dell’Ulivo nel 1996, con Prodi che convince gli italiani e spezza la leggenda mitologica dell’invulnerabilità di Berlusconi, dimostrando che batterlo è possibile. Quindi l’errore capitale di Rifondazione che fa cadere Prodi dopo l’ingresso storico nell’euro e interrompe così un esperimento che doveva durare cinque anni, mettendo davvero alla prova per la prima volta il riformismo italiano.
Seguono i due centrosinistra di questi ultimi anni, purtroppo due, contraddittori e incompatibili: quello di governo (che con D’Alema e Amato ha ottenuto ottimi risultati sul piano interno e su quello internazionale, con esecutivi di impianto europeo e una classe dirigente complessiva di cui non ci dobbiamo certo vergognare, dopo tanti anni); e quello dei partiti, impegnati in un gioco suicida di veti reciproci e ripicche da politica infantile, di corto respiro, senza ideali, progetti e identità, e dunque incapace di costruire nel Paese una rete di sostegno e di rilancio dell’azione di governo, mettendola in connessione con gli interessi legittimi dei cittadini, con la grande maggioranza che dopo la fine delle ideologie e delle appartenenze chiede sviluppo, equità, opportunità.
Bisogna prendere atto che quella maggioranza teorica e possibile oggi non è di sinistra o di destra per definizione. E’ un Paese che vuole crescere superando i suoi ritardi e le sue contraddizioni, e che nelle altre esperienze europee si troverebbe a scegliere tra due strade tradizionali: una riformista e una conservatrice, diverse e divaricate, ma entrambe europee nell’impianto, nella cornice, nella condivisione delle responsabilità e delle compatibilità. Soltanto in Italia sono di fronte una strada e una scorciatoia.
La strada del centrosinistra, indicata da Rutelli per tutta la campagna elettorale, è finalmente identica a quella di tutto il riformismo europeo, annulla le differenze storiche e drammatiche della sinistra italiana da quella occidentale, e fa l’unica promessa possibile nel quadro della compatibilità dell’Unione: un’europeizzazione convinta dell’Italia, una modernizzazione del suo mercato, delle sue strutture statali, dei suoi apparati e delle sue leggi, l’opportunità coniugata con l’equità, una crescita ragionevole e possibile proprio perché il centrosinistra ha agganciato l’euro e oggi può programmare con i partner uno sviluppo nello spazio e nelle regole comuni.
La scorciatoia di Berlusconi ha il fascino elettrico del cortocircuito. Non si pone il problema delle compatibilità né interne né internazionali, predica sorridendo il tutto, subito e a tutti, seleziona senza dirlo, gerarchizza senza mostrarlo, esclude senza nemmeno saperlo. Finge davvero di credere al paradosso impossibile del “meno tasse per tutti”, non si preoccupa nemmeno del calo di borsa e dunque del capital gain e dei riflessi nelle entrate perché il programma è “rivoluzionario”, e non sarà certo la realtà a cambiare il titanismo del Cavaliere. La scorciatoia è per definizione rapida, senza impicci e senza regole, come uno scivolo per il Paese delle Meraviglie. E c’è davvero qualcosa di magico e di eccentrico, come nel Cappellaio Matto, nella pretesa dannunziana del Cavaliere di ridurre la politica a propaganda perenne, il governo a uno slogan, i ministri a personaggi da rotocalco, il programma a fotoromanzo colorato, la sua biografia a progetto per tutti gli italiani. Il passato del Cavaliere (opportunamente rivisto, con cancellazioni mirate da Politbjuro) è il pegno del presente e la garanzia del futuro, come accadeva con i libri dei Pionieri. Un futuro futurista, con le parole in libertà, e tutti i fragori del caso.
Qualcuno dovrà pur dire che per trasportare in politica questo strano impasto gli strumenti tradizionali non bastano, e occorre un impianto base che nel dopoguerra l’Italia e l’Occidente non avevano ancora conosciuto: il populismo classico, aggiornato e dilatato dai tubi catodici delle tre reti tivù del Cavaliere, dalla fortuna del suo potere economico, dalla fedeltà di setta del gruppo che circonda le origini di quella fortuna, di quell’economia e di quei tubi, e tiene il tutto misterioso, pur predicando il liberismo, la trasparenza, la religione del mercato. Chi potrebbe negare, in termini di sistema, la straordinaria efficacia di questa proposta politica, che avanza per immagini più che per discussioni, che non prevede problemi ma soltanto soluzioni, che non si chiede come sciogliere i nodi tipici di ogni democrazia contemporanea perché basta tagliarli, che ha il contorno e il fascino classico di ogni avventura sregolata ed esagerata, quando per caso (ad esempio in un film) l’avventuriero fa irruzione nel territorio regolato ed equilibrato della politica e delle istituzioni?
Mi prendo la responsabilità di definire questo fascino perverso, dal punto di vista della democrazia, o anche soltanto di quelle regole condivise di comunità che l’occidente ha dato a se stesso dopo la sconfitta dei fascismi e dopo la fine della troppo lunga persistenza comunista. Aggiungo che il populismo è la malattia senile della destra italiana, una bestia che conosciamo: ed è insieme la sua ultima filiazione e mutazione modernissima, qualcosa di transgenico che ancora non conosciamo, in questa parte di mondo che ha inventato la democrazia dei diritti e la democrazia delle istituzioni.
Questa è la preoccupazione, forte, che viene avanti da tutta l’Europa, manifestata dalla libera stampa, i grandi giornali delle democrazie europee, giornali conservatori o progressisti, espressione della comunità degli affari, delle borghesie attive e modernizzatrici, comunque di quell’establishment continentale che ha in sé da cinquant’anni la doppia identità in cui ci vogliamo riconoscere, di Europa e di Occidente. E questa preoccupazione, in una parola sola, spiega la posizione culturale (prima ancora che politica) del nostro giornale nei confronti della destra italiana: questa comune preoccupazione europea, non piccoli calcoli di bottega, di parte o di convenienza.
A questo punto, bisogna dire con chiarezza che un pezzo dell’establishment italiano, un pezzo rilevante, sta da un’altra parte. Non solo e non tanto rispetto a “Repubblica”: ma rispetto alla grande stampa europea, francese, inglese, spagnola e tedesca. Le ragioni sono molto evidenti. In questi anni, silenziosamente, si è consumata ed è saltata quell’intercapedine liberaldemocatica che ancora nel 1994 era visibile tra la destra e la sinistra italiana, ed era composta da intellettuali liberali, da laici e cattolici con un forte senso dello Stato e una robusta passione civile, da azionisti residuali, certamente, ma ancora attivi, dalla tradizione dei giornali borghesi. L’insieme di questi valori formava una “religione repubblicana” che portò uomini conservatori a definire Forza Italia come un “partito azienda”, portò autentici liberali a spiegare la differenza tra la nuova destra italiana e la destra europea, portò uomini moderati a diffidare pubblicamente del radicalismo nascosto sotto il falso centrismo berlusconiano. L’establishment imprenditoriale, allora, si tenne a distanza dalla nuova destra, in parte per autentica diffidenza, in parte per invidia. E l’esperimento fallì.
In questi anni, quell’intercapedine si è sbriciolata ed è saltata, sotto i colpi di una nuova egemonia culturale che bisogna definire di destra, e che con l’aiuto criptato ma sapiente del revisionismo ha prima intimidito l’azionismo (nella fragilità novantenne dei suoi protagonisti), poi ha delegittimato l’antifascismo, quindi lo spirito repubblicano legato a quella stagione e alla Costituzione che ne derivava. Liberaldemocratici non se ne vedono più, liberali veri nemmeno a parlarne, tanto che un uomo che ha scelto la destra come Giuliano Ferrara – ma di destra non è – stupisce ogni volta che prova a richiamare quel mondo alle regole. Poiché il populismo (anche quello di Berlusconi, naturalmente) parla prima di tutto agli istinti, gli imprenditori si riscoprono padroni, sentono soprattutto il vento che cambia, credono di riconoscere nell’aria chi comanderà e si adeguano come hanno sempre fatto, possibilmente prima. Tutto questo, naturalmente, nell’interesse dell’Italia, ci mancherebbe.
Quanto agli intellettuali non schierati, giurano che se ci sarà bisogno si schiereranno, e come dubitarne? Solo che non ci sarà l’ora x’, non ci saranno attentati alla democrazia. Le ore che contano – senza nessun dramma, ma anche senza alibi e ipocrisie – sono quelle che stiamo vivendo, e anche la qualità della democrazia è quella che è. Ai giornali europei, agli intellettuali di quei Paesi tutto questo basta per dirsi preoccupati della situazione italiana. A noi anche. Per il resto, è silenzio: e magari la solita, antichissima viltà anticipata.