I rapporti fra maggioranza e opposizione sono oggi condizionati dalla riapertura del contenzioso fra il premier e una parte della magistratura ma anche dallo stato di debolezza in cui versa la leadership di Walter Veltroni nel Partito democratico. Veltroni ha perso le elezioni e, in altre circostanze, questo sarebbe motivo sufficiente per spingere un leader alle dimissioni. Nel caso di Veltroni questa regola non era applicabile.
Perché egli assunse la guida del Partito democratico in una fase di fortissimo deterioramento del rapporto fra il centrosinistra e l’opinione pubblica. A Veltroni non venne affidato il compito (impossibile) di vincere ma quello di salvare il salvabile in attesa di una successiva occasione più propizia.
Più che la sconfitta alle elezioni nazionali è stata la successiva perdita del Comune di Roma, luogo-simbolo su cui Veltroni aveva in precedenza costruito la sua immagine di politico vincente, a logorarlo (anche il «cappotto» nella tornata amministrativa siciliana non lo ha certo aiutato). Fin qui, i dati oggettivi. Ma ci sono anche gli aspetti soggettivi.
Il principale dei quali è che Veltroni, di fronte all’indebolimento della propria leadership, ha scelto un atteggiamento oscillante, difensivo, il cui unico effetto sarà, se egli non riprenderà l’iniziativa, di permettere ai suoi avversari interni di cucinarlo a fuoco lento. Contro il segretario si sono manifestati due tipi di opposizione. La prima è aperta, diretta e trasparente. La seconda è indiretta, aggirante, subdola.
L’opposizione aperta è quella di Arturo Parisi. Parisi dice: non condivido la piattaforma politica, chiedo quindi le dimissioni del segretario. Chiaro e lineare. I riflessi condizionati della politica fanno sì che il segretario e il suo entourage abbiano così potuto bollare Parisi come il peggior «nemico».
Ma i nemici peggiori sono altri, sono quelli che hanno scelto la strada più subdola. Essi dicono: il segretario (per ora) non si tocca, ma va cambiata la piattaforma politica. Si tratta, dicono, di ricreare l’alleanza con la sinistra massima-lista, di sbarazzarsi della «vocazione maggioritaria » («Il bipartitismo non ci conviene», dice Massimo D’Alema) con le conseguenze del caso anche in materia di riforma elettorale, di ritornare all’antiberlusconismo come componente centrale dell’identità di partito («no al dialogo » dice Rosy Bindi).
La politica, con i suoi alti e bassi, mette spesso i leader in difficoltà. In quei momenti essi devono scegliere: tirare dritto, andare alla conta, scontrarsi con i propri nemici interni, oppure galleggiare, sopravvivere piegandosi al volere degli altri. Ciò che Veltroni deve chiedersi è: che cosa resta di un leader se la piattaforma politica su cui si è impegnato e ha chiesto i consensi viene messa da parte?
Non è forse un congresso di partito la sede naturale per costringere quelli che vogliono cambiare la linea politica, fingendo però di appoggiare il segretario, ad allinearsi con lui o ad affrontarlo a viso aperto? Ciò può essere fatto, in corso d’opera, mentre viene ricalibrata l’azione parlamentare del partito. Al quale non serve inseguire generici dialoghi né, d’altra parte, riproporre i riti frusti della demonizzazione. Ha solo bisogno di fare opposizione puntuale, anche dura, sui temi non condivisi e di convergere su quelli condivisi.