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18 Luglio 2006

La Kabul immaginaria dei nostri pacifisti

Autore: Guido Rampoldi
Fonte: la Repubblica

STANDO ai pronostici alla fine ciascuno avrà quel che più gli preme. Il governo il rifinanziamento della missione in Afghanistan da una maggioranza (quasi) compatta. I parlamentari dissenzienti il loro quarto d´ora di visibilità, la riconoscenza della sinistra più radicale, perfino un´aura di superiorità morale. Però una questione che ha messo tanto affanno al centro- sinistra non può essere chiusa così. Perchè parte del pacifismo italiano nutre un´avversione tanto pregiudiziale alla missione Nato in Afghanistan?

Da settimane sentiamo ripetere diagnosi desolate sulla forza dei Taliban, che dilagherebbero, e sulle condizioni di vita della popolazione, che sarebbe peggiorate dall´arrivo degli americani. Il tutto sintetizzato in un motto ripetuto ormai anche da persone di buonsenso: «L´Afghanistan è peggio dell´Iraq».

Questa rappresentazione è totalmente falsa. Non v´è una sola città afgana dove in un anno accada quel che accade ogni settimana a Bagdad. E malgrado gli apporti pakistani i Taliban restano poche migliaia (12mila secondo i loro comandanti, seimila secondo la Nato), cioè una frazione minuscola di quel che erano sei anni fa.

Non che le cose vadano bene. Nel sud molti contadini sono stati sospinti verso i Taliban tanto dalle scriteriate minacce anglo-americane di sradicare le coltivazioni di papavero, quanto dalla sommarietà con cui spesso operano i militari statunitensi.

Ma se la situazione fosse anche solo comparabile con la mischia irachena, i soldati occidentali in Afghanistan sarebbero stati spazzati via da tempo, essendo quei trentamila appena un quinto delle truppe della Coalizione in Mesopotamia.

Per quanto spesso diffidino degli anglo-americani, gli afgani diffidano ancor più dei loro guerrieri. Dovendo scegliere tra Taliban, mujahiddin e stranieri, oggi probabilmente opterebbero per gli europei. «Ci chiedono più truppe, non meno», sostiene l´attendibile International Crisis group.

Beninteso, non è riprovevole sostenere che la guerra americana in Afghanistan rimandi ad un interventismo pericoloso per la stabilità del sistema internazionale. O che la pace vada garantita mediante un rispetto assoluto del principio di non ingerenza (per il quale però Hitler avrebbe potuto sterminare tutti gli ebrei tedeschi).

Sono le tesi spesso proposte dalla scuola del cosiddetto “realismo”: a nostro avviso sbagliate, ma legittime. Quel che però non è onesto è inventare un Afghanistan virtuale, falso come l´Iraq spacciato per quattro anni dal Polo, dal suo disciplinato giornalismo e da improbabili esperti”, la cui perizia pareva risiedere soprattutto nell´assecondare le balle governative.

S´aggiravano (metaforicamente) per quell´Iraq improbabile ripetendo, come Candido al dottor Pangloss: «È dimostrato che tutto va per il meglio». Andava così bene che oggi l´Iraq appare a tutti il campo di battaglia d´un conflitto feroce e insensato, uno di quei disastri che cambiano la percezione delle pace e della guerra, mettono le ali ai movimenti per la pace, consolidano una ragionevole sfiducia verso il ricorso alle armi.

Ma questo stato d´animo non basta a spiegare l´affermarsi dell´Afganistan immaginario. Se poi l´orrore suscitato da un conflitto giustificasse tutto, dovremmo assolvere l´intero pacifismo francese a cavallo delle due guerre mondiali.

Dopo la spaventosa carneficina del 1914-18 esso giurò che quella guerra sarebbe stata l´ultima. Era una promessa nobile, ma per restarvi fedele nel 1936 quel pacifismo convenne con il governo socialista che non si dovevano inviare armamenti alla Repubblica spagnola, aggredita dalla sollevazione franchista; finse di ignorare che le aviazioni fasciste e naziste combattevano al fianco di Franco; e col suo rifiuto di aiutare i repubblicani contribuì dapprima alla loro sconfitta e poi alla loro decimazione.

Nei quattro anni successivi accolse come un trionfatore Daladier di ritorno da Monaco: aveva evitato la guerra con Hitler! (che però in cambio aveva incassato i Sudeti). Infine decise che il collaborazionismo era preferibile ad un conflitto cruentissimo con l´occupante germanico.

Così votò i pieni poteri al governo del maresciallo Petain: e questi se ne servì per lanciare la sua zelante polizia sulle tracce degli ebrei francesi. Non stiamo suggerendo un paragone grottesco tra i Taliban e il Terzo Reich, né ci piace la formula dell´«islamo-fascismo», che certo ha giustificazioni ma richiama furbescamente il diritto d´una democrazia a reagire ad una minaccia mortale anche con mezzi illegittimi (la “Suprema emergenza” invocata nel 1941 da Churchill).

Però vorremmo far presente che anche certo pacifismo può macchiarsi di viltà, farsi complice di assassini, e concorrere (perfino in buona fede) all´uccisione di tanti innocenti.

Del resto questo comincia ad essere avvertito anche nella parte della sinistra radicale che cerca di inventare un pacifismo nuovo, né conformista né frivolo.

Ciò che distingue, per esempio, il grosso di Rifondazione dal resto della sinistra radicale non è soltanto un diverso disegno politico, ma anche un´aderenza alla realtà cui non sono estranei i rapporti di fattiva solidarietà intrattenuti, per esempio, con associazioni di donne afgane.

Per quanto in genere ostili agli Usa, non una di queste associazioni chiederebbe mai alla Nato un´exit-strategy dilibertiana: semmai vorrebbero che gli europei prendessero il comando delle operazioni.

Non una sosterrebbe che si stava meglio prima che la guerra americana abbattesse l´emirato dei Taliban. Non una tifa per i rivoltosi e non se ne augura la sconfitta. Non una non troverebbe ridicola l´idea di pacificare l´Afghanistan sostituendo i soldati europei con medici.

Invece l´altra parte del pacifismo preferisce il suo Afghanistan virtuale, «peggio dell´Iraq»: una causa persa, un inferno da cui scappare. In questa sinistra alcuni sono vittime d´un intenso desiderio ideologico: vogliono a tutti i costi che la guerra americana si concluda con una sconfitta.

E se poi i Taliban si riprendono l´Afghanistan o al Qaeda assume il controllo delle più grandi piantagioni di papavero da oppio del pianeta, ricavandone abbastanza per finanziare il terrorismo ovunque, questo pare meno rilevante.

Ad ascoltare poi quelli che rimpiangono l´emirato si ha l´impressione che solo un ultimo ritegno li trattenga dal rivelare la loro simpatia per i Taliban, considerati comunque migliori degli orribili americani.

Però abbiamo il sospetto che non pochi esponenti di questa sinistra radicale non siano affatto accecati dall´ideologia. Che insomma sappiamo bene quanto fasullo sia il loro Afghanistan: o comunque considerino secondaria la verità.

Obbediscono ad un calcolo quasi privato, pre-politico. Cosa conviene dire, dove conviene posizionarsi, cosa vuol sentire il mio pubblico, il mio elettorato, i miei sovvenzionatori? Quale tesi mette in difficoltà i miei competitori?

Quale opinione mi giova di più, mi distingue, mi rende più visibile? A verità complesse spesso l´utenza preferisce bugie verosimili, cioè coerenti con le proprie aspettative. E quelli gliele confezionano.

In questo gioco di simulacri e imposture l´intransigenza è brandita come la prova della propria superiorità morale: da qui l´abitudine a screditare come agit-prop della Nato, piazzista di bombardieri e “servo degli americani” chi articola un ragionamento sgradito.

Ma qui sorge un dubbio. Questa disinvoltura nel ritoccare la realtà e nell´anteporre sempre il proprio interesse all´interesse collettivo, peraltro il segno distintivo dello stile di governo espresso dal Polo, tonerà ad essere anche in futuro di grave impaccio alla politica estera del centro-sinistra?

Rivedremo la maggioranza macerarsi per due mesi ogni qualvolta alcuni intuiranno un piccolo lucro elettorale, un riflettore acceso, un ruolo gradito ad un pubblico di nicchia?

Considerando che prima o poi la crisi della destra metterà in libertà un certo numero di singoli parlamentari, forse è il caso che il governo cominci a pensare a come assicurarsi contro il rischio costituito da chi, nell´attuale maggioranza, pratica con tanta tenacia il narcisismo delle differenze.