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30 Maggio 2010

La grande disillusione

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Da una parte
c’è il
film proiettato dal presidente del Consiglio per anni: la crisi è un
fulmine, che non turba il cielo sereno sopra le nostre teste. La
chiamano
crisi, ma non è tale. Sono i giornali, le istituzioni internazionali, ad

angosciarci con le loro aritmetiche cupe. Dovrebbero tacere, lasciar
fare i
governi. Ben diversa la visione di Tremonti, che usa metafore tutt’altro
che
confortanti: «La situazione non è bella. Siamo alpinisti aggrappati a
una
parete verticale, non possiamo traccheggiare». Tremonti vede il disastro
ma
anch’egli proietta un suo film, quando paragona il marasma a un
videogioco.
Sullo schermo irrompe un mostro, dal nulla: o lo uccidi o perisci. Non
c’è
sguardo lungo. Abbatti l’orco, e passi al successivo. Non c’è tempo per
traccheggiare ma neppure, molto, per pensare. Inoltre il videogame puoi
spegnerlo.
Così muore il reality show che Berlusconi manda in onda sin da
principio: un
mondo finto, chiuso. Una sorta di quartiere sigillato, inaccessibile
alle
ambasce delle metropoli, simile a Milano-2 costruita negli Anni 70.

In America i quartieri sono chiamati gated community, comunità corazzate
da
grossi cancelli, che proteggono da incursioni esterne e spesso sono
dotate
di circuiti televisivi stile Mediaset o Tg1, dispensatori di
distrazioni. Il
reality non dice il reale; lo fa. La negazione della crisi, fino
all’allarme
di Tremonti, è stata un ingrediente base del film berlusconiano. Anche
la
negazione dei mostri nascosti (mafia, suoi patti con l’anti-Stato) è
ingrediente di rilievo.

Per questo non è appropriato parlare, a proposito della manovra, di
sacrifici. Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica
disintossicazione, unita a non meno urgenti operazioni verità sulla
democrazia minacciata. Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella
realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti
dietro le comunità transennate: il vivere alla giornata, il non guardare

lontano, il non voler sapere la verità sullo Stato e su se stessi. Il
compito affidatoci è una gigantesca disillusione, più che una rinuncia
ai
beni che avevamo. Il disilluso possedeva vizi, oltre che beni:
volontariamente scelse d’illudersi. Anche Manovra è parola sciapa, che
implica un guidatore e masse di guidati. Meglio parlare di un comune,
benefico risvegliarsi.

In fondo l’esperienza è simile a quella traversata dal cattolicesimo,
dopo
lo scandalo della pedofilia. Il clero ha coperto reati atroci, e ora
s’accinge a punirli. Ma il compito del risanamento spetta all’intera
Chiesa,
e la Chiesa non si riduce alla gerarchia: per definizione, è il popolo
riunito dei fedeli. Lo spiega magistralmente, sul sito del Regno, il
vicedirettore della rivista Gianfranco Brunelli. Perché l’istituzione
riacquisti credibilità, deve pensarsi come parte del popolo di Dio,
incorporare le vittime, parlare con loro più che a loro: non c’è
esclusivamente il clero, da curare. Guarire significa concepire la
Chiesa «non solo come istituzione ma come popolo di Dio»: giacché «Dio è

delle vittime. Dio è nelle vittime. Là egli si è fatto sentire. Là la
Chiesa
lo può vedere in maniera privilegiata, poiché là sempre egli manifesta
il
suo Spirito (Matteo 25)».

Da secoli la Chiesa ispira regni e repubbliche, e oggi come ieri la
teologia
aiuta a capire, soprattutto in democrazia, il farsi della politica. Lo
squasso economico mette quest’ultima a dura prova, e il rimedio anche
qui
non consiste nel salvare gerarchie e caste ma l’intero popolo della
politica: composto di governati e governanti, fondato su sofisticati
equilibri fra vari poteri che si bilanciano.

L’Italia economicamente sta meglio della Grecia (grazie al governo
Prodi,
essenzialmente), ma in molte cose i Paesi si somigliano. Atene è
precipitata
perché una classe di governanti, per anni, proiettò chimere: visse senza

guardar lontano, fino a truccare – in casa, in Europa – le cifre del
proprio
bilancio. Lo fece per immunizzare caste, politici. Non pensò (qui è la
somiglianza) che in custodia aveva tutto il popolo della politica, e in
primis i poveri, le vittime, i contribuenti che pagano per gli evasori, i

meno organizzati e garantiti. Epifani che annuncia scioperi anti-manovra
ha
comportamenti immodesti e suicidi: cos’ha dato il sindacato agli
italiani,
quando bocciò la vendita di Alitalia a Air France, se non più licenziati
e
fardelli più grevi sulle spalle dei contribuenti?

Degli aspetti tecnici della manovra si sa poco, ma ci sono elementi che
fanno impressione: alcune misure sono spudoratamente copiate dal governo

Prodi, abbattuto due anni fa. Restano memorabili gli insulti a Visco,
stratega agguerrito dell’anti-evasione: fu dipinto come vampiro, nei
videogame dell’attuale maggioranza. Ora le sue misure (tracciabilità dei

redditi) sono riesumate, e Tremonti non può dar torto a quel che Visco
scrive sul sito della Voce: «Se si ritiene che la riduzione
dell’evasione
sia utile, andrebbero reintrodotte integralmente le misure varate dal
governo Prodi e subito abrogate dal governo Berlusconi».

Ma le similitudini tra Grecia e Italia sono innanzitutto politiche. In
ambedue i casi, il rigore riesce a due condizioni: se la tecnica è
buona, e
se la democrazia ha le virtù raccomandate dall’Ocse alla finanza:
correttezza, integrità, trasparenza. Per imporre rigore, infatti, i
governi
devono avere la legittimità etica di chi non tratta il «popolo della
politica» come mezzo, ma come fine.

Sulla prima condizione si può sospendere il giudizio. Ma la seconda
condizione di sicuro in Italia manca. Questo è un governo che ha passato
più
tempo a proteggere premier e politici dai processi, che a far politica
per
gli italiani. Questo è un governo cui l’ex presidente Ciampi chiede
solennemente la verità sui pericoli corsi dalla democrazia nelle stragi
inaugurate dall’eccidio di Falcone e Borsellino (Repubblica, 29 maggio).

Questi sono giorni in cui il partito fondato da Berlusconi è sospettato
di
un patto con la mafia, che dopo Tangentopoli avrebbe convogliato su
Forza
Italia i voti di vaste aree del Sud in cambio di favori e promesse.

La crisi, come a Atene, disvela i trucchi ottimisti del film
berlusconiano
ma anche i suoi scantinati tenebrosi. L’evento fondamentale dei giorni
scorsi è stato il discorso di Piero Grasso, mercoledì a Firenze nella
commemorazione della strage dei Georgofili. Il procuratore nazionale
antimafia non cita Berlusconi e Dell’Utri – non ha le prove – ma dice
cose
gravi: «Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia
della
tensione», e le stragi del ’92-93 volevano causare disordine per dare
«la
possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione per poter
riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che

veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa Nostra, attraverso

questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere
gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare
l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue
richieste». Grasso in genere è uomo prudente. Nel ’98, con altri
magistrati,
archiviò l’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri ritenuti mandanti occulti
del
terrore mafioso.

Il procuratore disse queste verità già allora. Per motivi non chiari, il

verbale rimase però nascosto. Lo dissotterrano Lo Bianco e Sandra Rizza,
in
un libro che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere («L’agenda nera»). Se

Grasso torna a parlarne oggi è perché ha deciso di abbandonare le
autocensure. In parte perché nuovi pentiti testimoniano. In parte
perché,
grazie alla crisi, il Truman Show berlusconiano si sfalda. Può darsi che
la
bolla sopravviva un po’, come nel film di Peter Weir. Ma il «popolo
della
politica» difficilmente si farà persuadere ancora da miraggi e
occultamenti
dell’incantatore di Palazzo Grazioli. Questo non è tempo di mostri che
irrompono nel videogame. Ci sono mostri da stanare, non visibili perché
non
programmati per esserlo. È vero: «La situazione non è bella». Che
diventi,
almeno, vera.