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26 Maggio 2005

La dissipazione dell’alleanza

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

HANNO colpito ancora. Brucando i mazzi di cicoria, scorticando le radici dell´Ulivo, le «capre pazze» del centrosinistra (come le ha felicemente battezzate Massimo Cacciari) hanno devastato ancora una volta la loro già precaria metà campo. Con l´ennesima dissipazione di capitale politico, e la consueta operazione di cupio dissolvi, il solito gruppo di leader ha terremotato l´alleanza che dovrebbe governare l´Italia nel 2006. L´epicentro è la Margherita. Ma la distruzione rischia di estendersi.

Dai Ds allo Sdi, fino a coinvolgere le ali estreme, da Rifondazione ai verdi. Il dramma è che siamo solo alle prime scosse. A un anno esatto dalle elezioni, il sisma può durare mesi. E lasciare sul campo solo macerie. Tra Romano Prodi e Francesco Rutelli si è consumato uno scontro irrimediabile e ormai forse inevitabile. In una rovinosa combinazione di azioni e reazioni, estreme ma quasi obbligate secondo i rispettivi punti di vista, i due leader scivolano ormai su un piano inclinato di una rottura senza ritorno.

La contesa tattica è nata sulla lista unitaria, ma com´è ormai evidente a tutti nascondeva una divergenza strategica. Ora tutto è rimesso in discussione. L´identità del futuro centrosinistra e gli strumenti attraverso i quali deve operare. Il profilo interno del nuovo soggetto e la sua collocazione tra le famiglie politiche europee. La selezione dei gruppi dirigenti e ormai, a questo punto, anche la scelta della leadership.

Rutelli lo nega, ma ha assestato il primo affondo. Il no alla lista unitaria nella quota proporzionale delle prossime elezioni è stata una decisione legittima e democratica. Ma al di là dei suoi tentativi di ridimensionarne la portata, considerandola «solo» una scelta tecnica improntata all´efficienza coalizionale e all´efficacia elettorale, il presidente della Margherita non poteva non prevedere il micidiale «effetto a catena» che quella mossa avrebbe determinato.

Non poteva non sapere che quella lista Prodi l´aveva inventata nel luglio 2003, e che a quella lista, piaccia o no, il Professore aveva legato la sua trionfale «ridiscesa in campo» dopo la lunga esperienza europea. Non poteva non capire che rifiutare il «listone» proprio adesso, dopo averlo mal sopportato alle europee e tollerato solo in parte alle amministrative, avrebbe riaperto una ferita interna al suo partito.

Avrebbe riallargato il fossato tra la Margherita e la Quercia, che a sua volta era riuscita con qualche fatica a far digerire la lista unitaria al «correntone». Avrebbe inferto un colpo esiziale all´asse riformista della coalizione, moltiplicando le frecce all´arco di Bertinotti e a chi, nell´Unione, coltiva più il miraggio della Izquierda unida che non il sogno del partito riformista.

Rutelli sapeva tutto questo. Ma ha deciso di andare avanti lo stesso. Perché, al fondo, ha in testa un´idea diversa. Non vuole che, attraverso la Margherita, si risolva il secolare dilemma della riunificazione della sinistra italiana. Non vuole che, attraverso una confluenza che teme «egemonica», i post-comunisti e i neo-socialisti si rifacciano una verginità storica a spese della cultura cattolico-democratica.

Attraverso la chimerica promessa del «grande partito democratico», la sua chiara opzione neo-centrista tende in realtà ad autonomizzare il centro moderato fino a far scolorire la sinistra dall´orizzonte politico. Ma alla fine, avendo accettato fino in fondo tutti i rischi che la sua decisione si portava dietro, oggettivamente Rutelli ha anche colpito al cuore la leadership del centrosinistra.

Volente (perché con un sottile ma ostinato gioco di interdizione ha dato comunque l´impressione di volerla intralciare) o nolente (perché non accetterebbe mai di passare alla storia come il «killer» di Prodi). Ha provato a dire «Romano resta il leader». Sta di fatto che, in questi giorni difficili, ha dato carta bianca a Ciriaco De Mita e a Franco Marini, che invece sono convinti che «il candidato premier andrebbe cambiato, ma ormai è troppo tardi».

Di fronte a tanto «fuoco amico», Prodi ha reagito contrattaccando. Ha accettato la sfida di Rutelli, rilanciando la contraddizione nell´orto del suo partito. Non rinuncia alla lista unitaria, ma anzi la lega indissolubilmente alla sua missione politica. Va avanti «con chi ci sta», dentro la Margherita e tra gli altri alleati della federazione. È pronto a sua volta a rimettere in gioco la sua leadership, rievocando le primarie.

Il Professore è ancora convinto che sia possibile evitare il «centrosinistra col trattino», fondendo le sue componenti in un progetto più vasto, che tenga insieme le due grandi «post-culture» del Novecento italiano (quella comunista e quella democristiana). È ancora convinto che, attraverso l´Ulivo, sia possibile assicurare all´alleanza un baricentro riformista forte sul piano identitario e visibile anche sul piano della simbologia elettorale.

Non poteva non sapere che, rispondendo con tanta asprezza al no di Rutelli, avrebbe esposto la Margherita al pericolo di una scissione. Non poteva non prevedere che la sua mossa avrebbe a sua volta innescato un bradisismo pericolosissimo in tutta la coalizione. Non poteva non capire che, a questo punto, anche il suo futuro personale si fa incerto. Ma per le ragioni uguali e contrarie a quelle del suo «avversario», il Professore alla fine ha accettato questi rischi.

Se l´ha fatto, è perché forse non si fida di Rutelli, e teme le sue manovre al centro con i transfughi e i naufraghi del berlusconismo. Forse si sente lui stesso la «preda», in questa caccia al leader che sembra essersi aperta dentro l´opposizione.

Tutti e due, Rutelli e Prodi, portano in varia misura la responsabilità di quanto è accaduto e sta accadendo. L´ex sindaco di Roma, per apparenti ragioni di bassa ingegneria delle coalizioni, ha mancato di generosità e di visione. E oggi, paradossalmente, il leader che ha la pretesa di dar voce ai moderati, alla borghesia produttiva e all´elettorato cattolico è un politico che viene dalle marce e dalle lotte radicali degli anni 70 e 80.

L´ex premier, per evidenti carenze di esercizio del comando e in nome di una retorica ulivista tanto mitica quanto inefficace finchè si illude di galleggiare fuori o al di sopra dei partiti, non è riuscito a farsene uno suo. E oggi, paradossalmente, il candidato premier dell´opposizione non è il capo del suo primo partito, come succede in tutte le democrazie occidentali. Ma, di fatto, si ritrova ad essere solo l´ispiratore della «corrente di minoranza» del secondo partito della coalizione.

Nel frattempo, il Paese vive un´emergenza economica e finanziaria che non ha precedenti. Dalla crescita ai conti pubblici, è uno stillicidio di moniti e di allarmi. Dall´Ocse a Eurostat, dall´Istat alla Commissione Ue. La «forbice» tra i rendimenti dei Btp e i bund tedeschi che, due giorni fa, ha battuto un nuovo record, superando i 20 centesimi.

Di fronte a questo bollettino di guerra quotidiano, di cui la maggioranza di centrodestra porta tutta intera la responsabilità, l´opposizione di centrosinistra avrebbe un solo dovere. Soprassedere o rinviare al dopo la resa dei conti sui contenitori, e mobilitarsi compatta sui contenuti, per garantire al Paese una via d´uscita realistica e responsabile.

Servirebbe davvero, a questo punto, uno spirito da moderno «Cln», per assicurare agli italiani uno sbocco condiviso e non traumatico da questa crisi di fiducia e di prospettiva. Un programma serio, un´alternativa credibile. Un progetto di risanamento e di rilancio, messo a punto dai leader e dalle numerose personalità del centrosinistra. Fuori dalle faide di Piazza Santi Apostoli, fuori dalle «fabbricotte» bolognesi.

E invece, proprio nel momento di massima involuzione del centrodestra e di estrema consunzione del berlusconismo, accade che anche il centrosinistra si disgrega. Si guarda l´ombelico con narcisistico autolesionismo, fino a bruciare tutte le sue risorse. Si crogiola nelle sue formule alchemiche, fino a regredire allo stato gassoso. È incapace di parlare al Paese. Davanti a tanto disastro, può succedere di tutto.

Di fronte a un possibile default economico-finanziario, può accadere che a forza di evocarne lo spettro finisca addirittura per auto-avverarsi la profezia di un governo di emergenza istituzional-centrista, che rischierebbe di far calare una seria ipoteca sul bipolarismo della prossima legislatura. Di fronte al tracollo dell´Unione, può accadere che il Cavaliere rivinca le elezioni.

Oppure il contrario: di fronte al collasso della Cdl, può accadere che l´Unione vinca lo stesso nel 2006. Una cosa è certa. Su queste basi, il centrosinistra può anche riuscire miracolosamente a vincere. Ma non riuscirà mai a governare.