ANCORA una volta un guizzo di Gianfranco Fini, e di nuovo sul referendum, movimenta il centrodestra e soprattutto agita il suo partito. Già, ma ha ancora un partito, Fini Oggi per l´opinione pubblica e per il settore dei media il fondatore di Alleanza nazionale è soprattutto il vicepresidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, il suggeritore di Silvio Berlusconi in funzione di riequilibrio delle posizioni leghiste sull´euro; dietro la sua immagine, An è una formazione anonima, continuamente presa in contropiede dalle iniziative del leader, scossa ripetutamente nelle proprie certezze.
Il fatto è che nonostante il restyling di dieci anni fa a Fiuggi, An doveva mantenere il carattere di partito di raccolta di una destra tradizionalista, ancorata ai valori del “law and order”, revisionata nell´ideologia ma senza rotture traumatiche con un´ispirazione culturale di fondo e con almeno l´eco di un passato. Patriottica, sociale, cristiana, la destra di Fini doveva essere nelle intenzioni dei suoi creatori una forza moderata e capace di drenare il voto conservatore in funzione moderata.
Questa moderazione era essenziale per poter uscire dall´angolo. Anche senza diventare una forza centrista, An doveva fare tutto il possibile per qualificarsi come una entità politicamente centrale: in modo che il successo popolare della figura di Fini, intensificato a dismisura dalle sue qualità mediatiche, potesse alla lunga coincidere con la sua candidatura alla leadership del centrodestra e possibilmente alla guida del governo.
Il disegno era nello stesso tempo semplice e ambizioso. Di fronte a un partito non radicato come Forza Italia, e a un movimento estremista come la Lega, la progressiva trasformazione di An, il suo sostanziale avvicinamento alle posizioni del Ppe, la trasformazione progressiva della vecchia destra in una sorta di grosso partito moderato dalle connotazioni ideologiche molto sfumate poteva portare An a rivaleggiare senza troppe difficoltà con gli eredi della Dc, il partito di Casini e Follini, presenti nella Casa delle libertà e “naturalmente” predisposti a guidare la fase postberlusconiana.
Tuttavia lo schema ha preso un´altra configurazione. Chi aveva ancora in mente il Fini continuista, non troppo vagamente omofobo, legato alle vicende e alle memorie del Movimento sociale, e comunque a un´identità altra ed estranea rispetto alle culture fondatrici della Repubblica, ha assistito a una serie vistosa di strappi, che hanno portato il capo di An a collocarsi in una traiettoria diversa da quella del suo partito.
Alcuni di questi scarti rispetto alla norma “postfascista” potevano essere compresi in vista del completamento della transizione di An, anche se hanno provocato contraccolpi plateali nel partito.
Ad esempio, la visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah in Israele, con le dichiarazioni sulle leggi razziali del 1938 che equiparavano il fascismo al «male assoluto», rappresentò uno choc per la storia personale di diversi esponenti di An, provocando la defezione di Alessandra Mussolini e varie proteste nella vecchia guardia: ma evidentemente il partito era disponibile a metabolizzare la svolta, tanto che anche una figura come Francesco Storace, critico molto esplicito della nuova fase, rientrò rapidamente e silenziosamente fra i ranghi.
Ma altri strappi, decisi secondo uno stile assolutamente personalistico, fuori da ogni dibattito di partito, praticati d´impulso, eseguiti senza tenere conto degli organi interni di An, non appartenevano affatto alla tradizione culturale di Fini e dei suoi colonnelli. La scelta di spendersi a favore della concessione del voto amministrativo agli immigrati fu una decisione modernizzante, tipica di una destra del tutto staccata ideologicamente dal suo passato (e anche dalle aspettative del suo elettorato).
E anche l´impegno in chiave europea, con la partecipazione alla stesura del trattato costituzionale, si situava fuori dagli standard politici nazionalpopulisti della cultura profonda di An.
È vero che molte delle iniziative di Fini sono rimaste nella condizione di intervento estemporaneo, senza conseguenze riscontrabili nella pratica politica di An. Ciò nondimeno, con i suoi blitz Fini si è progressivamente staccato dal corpo del suo partito.
A giudicarlo dalle dichiarazioni, è il portavoce di una destra che non c´è o che non c´è ancora. Come se con freddezza, forse con calcolo, avesse gettato se stesso oltre la vecchia destra. Oggi la destra di Fini non è più così cattolica, e non è più così nazionale e tradizionalista come ancora la pensano molti degli uomini di An.
Dopo le esternazioni sui “tre Sì” e il rifiuto dell´astensione al referendum, sembrano esserci insomma due destre. Una è la vecchia An; l´altra è la destra attuale e futura di Fini. Possono ancora convivere Possono convivere una destra reale e una destra virtuale La rivolta del partito manifestatasi ieri sembra dire di no.
Può essere che nel clima postmoderno della politica contemporanea, scivolato via il referendum, le due entità si ricongiungano senza nemmeno la necessità di troppe spiegazioni.
Ma se Fini vorrà giocarsi per intero la posta relativa alla sua carriera politica, puntando su se stesso e su una destra moderna, secolarizzata, non populista, per An potrebbe esserci un ruolo tendenzialmente subalterno; e per lui, il leader di una destra ipotetica, tutte le possibilità in campo, dal successo (e dal rifacimento del centrodestra) a un fallimento senza vie scampo. Evidentemente, per il Fini di oggi, il gioco vale una puntata estrema.