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16 Settembre 2005

La deriva del made in Italy

Autore: Giuseppe Berta
Fonte: La Stampa

Ieri il presidente Ciampi ha trovato parole forti per invitare la nostra
classe dirigente a perseguire una condotta fondata sulla rettitudine e a non
indugiare su soluzioni che richiamino il passato, invece di rafforzare le
prospettive del presente e del futuro per il nostro Paese. In questo modo,
Ciampi ha certamente colto come uno degli ostacoli fondamentali contro cui
l’Italia deve lottare sia costituito dalla caduta della sua immagine
internazionale. Il rischio che concretamente si presenta è quello di una deriva
tutta in discesa, che il Paese non è stato fin qui in condizione di contrastare.
Il gioco di rimessa fra il governo e la Banca Centrale Europea sulla questione
di chi abbia la competenza per il ritiro del mandato del Governatore Fazio
(colui che il «Financial Times» ha descritto attaccato «come una cozza» al
proprio incarico) ha scosso il nostro prestigio istituzionale, già malcerto. I
pericoli di un discredito complessivo per una nazione che non ha mai goduto di
uno stabile apprezzamento a livello internazionale sono grandi, perché possono
facilmente ribaltarsi in maggiori oneri finanziari, cui nemmeno la forza
dell’euro può porre riparo. Con le ultime vicende è stato per l’Italia come
esporsi impietosamente a se stessa e al mondo, fino a rendersi dolorosamente
conto che strappi, lacerazioni e suture frettolose compongono un assetto
precario e male assortito.

Questa constatazione produce un evidente contraccolpo sulla percezione che
il Paese nutre di sé e delle sue prospettive: esse risultano a tal punto
nebulosamente incerte da oscurare anche gli elementi tuttora forti e vitali che
persistono nella struttura economica e sociale. Di qui l’inevitabile raffronto
col passato, con l’epoca in cui l’Italia scontava, sì, le contraddizioni che
hanno sempre accompagnato la sua storia, ma registrando risultati e successi che
non sfuggivano all’occhio critico dei suoi partner internazionali. Come ha detto
Carlo De Benedetti nella recente intervista a questo giornale, il nostro Paese
era considerato di solito con un «mix di simpatia e di discredito». Un tempo era
consuetudine stigmatizzare le ricorrenti crisi politiche dell’Italia, magari per
ironizzare sulla cifra bizantina delle dispute che dividevano i partiti e
sottolineare i ritardi, le debolezze e le inefficienze della nostra complessione
civile, ma al contempo si dovevano riconoscere le qualità e le peculiarità di
fondo della nostra società, dalla vivacità imprenditoriale al made in Italy al
timbro culturale che distingueva le dimensioni più importanti della nostra
civiltà.

Al contrario, l’Italia d’inizio Duemila appare come un Paese deludente. Per
il declino di autorevolezza che tocca istituzioni un tempo rispettate come la
Banca d’Italia, per la manifesta carenza di leadership e di progettualità
politica, per la tendenza al ristagno dell’economia e, non ultimo, per il tono
della vita civile. Se il malessere è continuamente richiamato all’interno dei
nostri confini, all’estero si sta traducendo in una perdita di attenzione verso
l’Italia. Oggi basta andare in una qualsiasi delle grandi capitali del mondo per
accorgersi di come il nostro Paese non riesca più a comunicare una visione e una
rappresentazione di se stesso.

Si spiega così come mai, di fronte al grigiore dei giorni che stiamo
vivendo, al respiro breve della politica, al mediocre profilo di molta classe
dirigente, si indulga a volgere lo sguardo all’indietro, rivalutando l’Italia di
una volta, quella precedente alla nascita del sistema bipolare. Di questa
nostalgia si è alimentato il dibattito estivo sul rimpianto per il «centro»
smarrito e sulla possibilità di restaurarlo, magari attraverso la ripresa del
sistema proporzionale. Vista in retrospettiva, l’Italia della «prima Repubblica»
sembra infatti più governata dell’attuale, pur a dispetto delle tante crisi che
l’attraversavano, e capace di creare le condizioni affinché alcune grandi
istituzioni fossero rispettate e godessero di prestigio. Alla distanza, persino
i suoi ceti dirigenti sembrano meno intaccati dalla mediocrità, meno
inestricabilmente invischiati nelle polemiche e negli scontri locali.

Quell’Italia, in realtà, fondava il suo assetto su un’architettura
delicata, corrispondente a un’altra epoca storica. Il sistema politico era il
frutto del disegno emerso dalla Ricostruzione che, se per un verso lo rendeva
bloccato, inabile all’alternativa, per l’altro riconosceva ruoli e funzioni alle
forze al di fuori delle coalizioni di governo.

Con tutti i meriti che possiamo concedergli alla distanza, quest’ordine era
inadatto a sopravvivere alla rivoluzione dei confini globali che si è verificata
alla fine del secolo scorso. Non poteva sussistere, dopo d’allora, un
capitalismo chiuso, così come non poteva durare un sistema politico modellatosi
sulla Guerra fredda. Il problema è che il cambiamento che abbiamo intrapreso a
partire dagli Anni Novanta, nell’ambito politico come in quello economico, è
avvenuto in maniera oltremodo caotica, così da confondere e mescolare competenze
e ruoli. In particolare è mancato, da parte della politica, un disegno d’insieme
che avesse la coerenza, se non la lungimiranza, di quello del dopoguerra. La
scena pubblica è così divenuta teatro di affannosi e parziali aggiustamenti
continui, dettati dalla ricerca delle convenienze a breve termine invece che
dall’etica della responsabilità. Col risultato che le nostre classi dirigenti
non hanno saputo finora proporre una convincente immagine dell’Italia
all’altezza dei compiti del presente, tale da convincere i cittadini e in grado,
per questo stesso motivo, di parlare al resto del mondo.