In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita
civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d´ironia, se non
anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel
settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile,
maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de
conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle
che noi avremmo definito un tempo “esercitazioni”, prima di diventare
agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser,
espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di
“maestro di vita”? Meister, che richiama tempi andati di corti
principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure
gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è
da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude.
Il “gran
maestro” delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene
a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente
all´aria aperta.
I tempi sono cambiati. Il “magister” che insegnava
nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per
sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a
insegnante. Residua il maestro elementare, con l´iniziale minuscola, e
questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche
circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con “operatore”
di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono
ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché
saremo entrati in un´epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto
un ripensamento su noi stessi.
George Steiner, nei saggi raccolti
sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, 2004) ha messo in
guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro – monumentale,
gerarchica, prescrittiva – porta in sé. Il pericolo maggiore consiste
nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali.
Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di “sedurlo” con la
sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di
quella di quest´ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di
primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o
annullare tutti gli altri. (…) Le degenerazioni dei rapporti
interni alle “scuole”, che possono portare ad altrimenti impensabili
meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne
traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande
giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti
autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, 2008) riferisce del
suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi
“maestri” del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo
racconta così: Jellinek «era circondato da un impenetrabile gruppo di
allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità.
Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti,
costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso
Jellinek. Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e,
cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io
rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò
che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro
accademico al suo autore: ma questi ? aggiunge Kelsen maliziosamente –
nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi
scritti mediocri». Ecco un rischio di questo rapporto malato, la
mediocrità all´ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo
episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il
campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico.
Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch´egli
solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei
deboli e conducono perfino all´omicidio. (…)
La radice di queste
degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il
discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore
comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di
fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano
possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista
del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di
qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo. Se manca
questo elemento, la persona del maestro diventa l´oggetto
dell´attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa
l´oggetto dell´attenzione del maestro. L´amore della verità ? usiamo
questa parola con la minuscola ? viene a essere sostituito
dall´autocompiacimento dell´uno attraverso l´altro, cioè da
manifestazioni di narcisismo. (…) Il maestro è ridicolmente
anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro
nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo,
che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo
applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della
conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi
anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri,
non è confacente a questa società. (…) Questa società non ha dunque
bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui
si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano
maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione,
maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul
nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a
essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei
grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio?
(…) E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta
di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della
democrazia, l´una in opposizione all´altra. L´una, la potremmo definire
democrazia critica; l´altra, acritica. La democrazia critica pone se
stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia,
sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un
sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità
non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle
capacità ch´esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa
tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il
suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l´esigenza di colmare
questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima,
il detto vox populi, vox dei, per l´implicita supposizione di
infallibilità ch´essa comporta. Considera un cedimento a
un´inaccettabile ideologia della democrazia anche l´espressione, spesso
ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione,
e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come
ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società
in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente,
nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione,
contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha
invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che
riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior
numero. È una questione di distribuzione e assunzione di
responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire
la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di
uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e
confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al
tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è
forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita
individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice
“la lezione dei maestri”, si dice innanzitutto distanza tra noi, come
soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del
maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità
vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la
maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come
quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un
inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che
non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c´è
bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di
comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false
maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s´è detto. Esse
non creano tensione, allontanano da noi l´inquietudine del dubbio, ci
fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non
essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace
con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci
trasformano da soggetti in oggetti. I maestri non esistono se non
ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i
discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli,
incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora
possono comparire i maestri. Questo ? porre domande inevase e far
valere esigenze insoddisfatte – è il compito di chi crede che valga la
pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa
e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi
l´inquietudine non come un vizio, ma come una virtù. Abbiamo di
fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della
democrazia, inquietudine senza sbocco per l´avvenire e incapacità
generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche
modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che,
non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la
presenza o l´assenza di un magistero civile sarà determinante.
“Democrazia e Laicità: i maestri”. Questo il titolo del
seminario che si è chiuso ieri a Poggibonsi. Al seminario, a cura di
Libertà e Giustizia, hanno partecipato Gustavo Zagrebelsky, di cui
pubblichiamo parte della lezione, Sandra Bonsanti, Giovanni Bachelet,
Gennaro Sasso, Piero Bellini, Roberto Faenza e Corrado Stajano.