In Italia è avvenuto un colpo di stato con il quale la democrazia
parlamentare è stata sostituita dalla democrazia consensuale. Il cambio di
regime non è capitato in una tenebrosa «notte dei generali», come di
consueto, ma è avvenuto con una silenziosa ma efficacissima rivoluzione che
ha esteso questo sistema di governo dalla politica all’intera nostra
società.
Quello che è successo, ormai, è sotto gli occhi di tutti, anche se
molti fanno finta di non vederlo. Il Parlamento, come luogo di
rappresentanza e di sintesi politica degli interessi, è stato completamente
esautorato. Senatori e deputati sono alla ricerca disperata di una funzione
perduta che cercano pateticamente di ritrovare o con una battuta che riesca
a «bucare» il solito tran-tran dei panini televisivi o gridando al
tradimento di un’identità scomparsa. Gli ultimi casi sono illuminanti:
Storace, novello Diogene, vuole scovare dov’è finita la destra smarrita;
Mussi e compagni dove si è cacciata la sinistra dimenticata. Tutti, con
un’interpretazione davvero balorda del maggioritario, si sono autoesclusi
dal compito per cui sono stati eletti: trovare, sui vari problemi, una
sintesi politica in nome dell’interesse generale. Non possono più farlo
perché non sono più rappresentanti di legittimi interessi settoriali, ma
solo pedine di eserciti contrapposti, in attesa di votare per la sconfitta
del leader avversario, nella totale noncuranza del merito delle questioni da
affrontare. Se qualsiasi argomento serve non per far prevalere una tesi o
l’altra, ma per riuscire a compiere o a sventare un agguato parlamentare,
non contano le teste, bastano le dita sul rosso o sul verde.
Il
governo, poi, come dimostra anche la dichiarazione di Prodi sul cosiddetto
«scalone» pensionistico in antitesi con quella di D’Alema di qualche giorno
fa, è costantemente sotto ricatto da parte di un partito o da una frazione
di partito, da un sindacato o da una frazione di sindacato, per cui la
regola fondamentale della politica è mutata completamente: la democrazia non
è più la verifica della maggioranza, ma la raccolta del consenso. Una
campagna elettorale permanente trasforma la ricerca del massimo comune
denominatore, per risolvere un problema, nell’invenzione di quel minimo
comune che riesce ad accontentare il maggior numero di persone interessate a
quel provvedimento. Alla perenne conquista di un miracolo impossibile in
democrazia: quello di cambiare qualcosa senza scontentare nessuno. Con
l’unico effetto possibile, quello di gabellare per grandi risultati
modifiche marginali di un perenne «status quo» conservatore, per cui i
privilegi delle categorie non vengono mai seriamente intaccati in una
società ormai pietrificata alle condizioni individuali di partenza.
Il
guaio vero è, però, che questa «democrazia del veto» si è estesa alla vita
della comunità nazionale anche fuori dai palazzi delle istituzioni. Poiché
una distorta interpretazione costituzionale insegna che la rappresentanza,
più è frammentata sul territorio e moltiplicata nella società, più è
augurabile ed efficace, si è dato un vastissimo e ormai paralizzante potere
di blocco a qualsiasi decisione. C’è sempre un comitato di quartiere, una
comunità montana e, perfino, un’assemblea di condominio che, in nome degli
inalienabili(?) diritti dei partecipanti, si erge a tutela degli
inviolabili(?) interessi dei suddetti. Il criterio della maggioranza è stato
abolito dal golpe di cui abbiamo raccontato il travolgente successo e quindi
la raccolta dell’ultimo consenso possibile assicura a tutti non di imporre
la propria volontà, ma di impedire l’attuazione di quella degli altri, fosse
anche di gran lunga prevalente.
Non bisogna confondere la gravità della
situazione italiana assimilando questa patologia sociale all’emergere di
alcuni fenomeni ormai stranoti anche all’estero, come l’effetto «nimby»,
cioè la rivolta di chi soffre direttamente i danni di un provvedimento
assunto nell’interesse più generale. O limitarsi all’inutile deplorazione
per la forza delle corporazioni professionali o di categoria: è inevitabile
e anche comprensibile il tentativo di impedire l’annullamento di alcuni
vantaggi sui quali si è contato per decenni. Il problema non è l’espressione
o anche la moltiplicazione delle proteste, ma la rinuncia alla regola della
democrazia rappresentativa: quella che disciplina il conflitto sulla base
del consenso della maggioranza. Se ormai gran parte della società italiana
disconosce questa norma, perché la politica ha rinunciato ad affermarla,
rischiano di venir meno le basi contrattuali su cui si regge o dovrebbe
reggersi il nostro Stato.
È vero, forse, che una comunità con ideologie
deboli è costretta ad affermare la propria identità nel modo più facile, ma
anche più distruttivo, cioè con l’espressione di un «no», perché è molto più
difficile costruirla sul «sì» a qualche valore profondo e largamente
condivisibile. Sociologi, politologi, storici e filosofi hanno ampio e
interessante campo di discussione a questo proposito. Ma i rischi di questa
degenerazione della nostra democrazia sono tali da non poter aspettare per
lungo tempo le ricette degli intellettuali. Per parte loro, i politici
potrebbero dare il loro contributo ricordando le parole di un personaggio
illustre e, purtroppo, quasi dimenticato, il Mahatma Gandhi. Nella sua
autobiografia, pubblicata nel lontano 1948, scriveva: «Il regime
parlamentare è valido solo quando i suoi membri sono disposti a uniformarsi
alla volontà della maggioranza. In altre parole, è onestamente efficace solo
tra gente che si tolleri reciprocamente».