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8 Febbraio 2008

La costrizione previdenziale

Autore: Paolo Mieli

La scelta del Partito democratico di presentarsi da solo alle
prossime elezioni politiche non va tenuta nel conto di un espediente. È
un fatto, certo, che se la coalizione di centrosinistra si fosse
riproposta tal quale si era presentata nel 2006, l’esito sarebbe stato
per lei disastroso. E questa catastrofe, va detto, si sarebbe avuta non
già per la prova del governo Prodi che, anzi, nelle condizioni date ha
offerto una prestazione di tutto rispetto. L’esito per il
centrosinistra sarebbe stato molto negativo proprio per le «condizioni
date» e cioè per la conclamata indisponibilità di micropartiti e
piccole correnti a farsi carico della logica di coalizione, ovvero del
rispetto del principio di maggioranza all’interno della coalizione
stessa. Walter Veltroni, dunque, non poteva presentarsi alla guida di
un partito legato a soci indisciplinati oltreché inaffidabili ed è
costretto, sì costretto a correre in solitudine.

Ma, a questo punto della storia della sinistra italiana, si tratta di
una costrizione provvidenziale che lo obbliga a tagliare con un colpo
netto un nodo che altrimenti sarebbe rimasto ancora a lungo
aggrovigliato. Di che cosa stiamo parlando? Dal 1861, dalla formazione
del nostro Stato unitario, anche prima della nascita e
dell’affermazione del Partito socialista, in Italia la sinistra di
governo fu quella di ex adepti del movimento garibaldino e mazziniano
(adepti di rango: Agostino Depretis, Giovanni Nicotera, Francesco
Crispi) che lasciavano dietro di sé nel territorio di provenienza, un
campo antisistema, parte consistente della loro legittimazione.
L’identità forte restava appannaggio dei loro compagni rimasti sul
terreno della radicalità: ai transfughi rimaneva un’ identità
dimidiata, la necessità di attestare di continuo una qualche fedeltà
agli ideali di un tempo, l’obbligo morale di proporre misure in cui
credevano poco, solo per dimostrare al loro elettorato potenziale
rimasto fuori dal sistema di appartenere ancora a una stessa famiglia.
E per avere libertà di manovra nella complicata arte del governo toccò
loro, alla sinistra storica, persino di elevare a dottrina il
trasformismo (1882).
Le questioni legate alla figura del transfuga che si stacca dal ceppo
d’origine si proposero anche fuori dai nostri confini, ad esempio per
Alexandre Millerand, il primo socialista francese che nel 1899 entrò
nel governo di difesa repubblicana presieduto da Waldeck-Rousseau. Ma
presto i socialisti di Francia vennero a capo di questo problema, dopo
appena quindici anni, allorché nel corso della prima guerra mondiale —
con Jules Guesde e Marcel Sebat in rappresentanza dell’intero partito —
entrarono nel governo (di grande coalizione) presieduto da Viviani. In
quegli stessi giorni i laburisti inglesi facevano il loro ingresso nei
gabinetti (anche questi di coalizione) di Asquith e Lloyd George. E
subito dopo la Grande guerra i socialdemocratici tedeschi Ebert e
Scheidemann guidarono i primi governi della Repubblica di Weimar. In
altre parole i socialisti dell’Europa più avanzata già all’inizio del
Novecento, prima o a ridosso della Rivoluzione d’ottobre, si
addossarono responsabilità ministeriali dandosi — in conformità
all’occasione — una salda identità via via sempre più riformista.
Da noi le cose andarono diversamente. I primi socialisti che andarono
al governo, Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi nel 1916, lo fecero anche
loro da transfughi alla guida di una piccola formazione scissionista
che si era staccata dal Psi quattro anni prima. E dopo il conflitto
Filippo Turati, pur avendo capito fino in fondo che cosa si dovesse
fare, non riuscì a divincolarsi per portare il suo partito in un
gabinetto che grazie alla forza dei socialisti avrebbe potuto sbarrare
la strada al movimento mussoliniano. Poi fu il ventennio dei fascismi e
della stringente logica per cui i socialisti europei furono costretti
ad aderire ai fronti popolari, cioè all’alleanza con i comunisti. Ma,
finita la seconda guerra mondiale, i laburisti inglesi di Attlee, i
socialisti francesi di Guy Mollet e Ramadier, quelli tedeschi di
Schumacher ruppero subito con i comunisti staliniani riprendendo con
ciò la loro identità originaria e con essa la via del governo. In
Italia no. I socialisti nostrani ancorché (particolare non irrilevante)
nel 1946 fossero il primo partito della sinistra italiana restarono,
unici nell’Europa democratica, avvinghiati al Pci in un legame
frontista. Si staccò, è vero, nel 1947 Giuseppe Saragat ma il suo
piccolo partito socialdemocratico, come già era stato per Bonomi e
Bissolati, portò con sé una parte infinitesimale della sinistra che
pressoché al completo rimase egemonizzata dal Pci nel campo della
radicalità antisistema. E quando negli Anni Sessanta i socialisti di
Pietro Nenni andarono finalmente al governo, il grosso dell’elettorato
(con annessa l’identità vera della sinistra italiana) restò con il Pci
all’opposizione. Insomma qui in Italia non è mai accaduto che il
principale partito della sinistra si mettesse nelle condizioni di
candidarsi davvero a governare— con un programma coerente di riforme
coraggiose sì ma compatibili —al riparo da veti e intrusioni da parte
di entità politiche collocate su posizioni estreme. Mai.
L’unità nazionale (1976-1979) fu altra cosa e neanche l’Ulivo prodiano
— che pure è stato il progenitore del Partito democratico — può essere
considerato qualcosa di simile ai confratelli socialisti europei che
dall’inizio del secolo scorso hanno avuto (ed esercitato in prima
persona) responsabilità di governo. Se non altro perché l’Ulivo non si
è mai candidato a governare libero da ipoteche di sinistra. Oggi, per
la prima volta dopo centoquarantasette anni, questo accade anche da
noi. E grazie al fatto che Rifondazione mostra di aver ben compreso —
pur non facendolo proprio — il senso di questa evoluzione, il divorzio
della sinistra riformista da quella massimalista e rivoluzionaria
avviene in un clima che si può definire di separazione consensuale.

Quello che sta accadendo al Partito democratico (sempre che Veltroni
riesca a tenere duro al cospetto delle irragionevoli obiezioni di
alcuni dei suoi) è qualcosa che va al di là di ciò che si deciderà il
13 e 14 aprile. Se il suo partito uscirà consacrato da un risultato
abbondantemente superiore al 30 per cento, anche in caso di sconfitta
potrà dispiegare una politica potente in grado di dare frutti molto
prima di quanto si pensi. È vero che la Casa delle libertà al nastro di
partenza per la corsa del 13 aprile ha maggiori e non immeritate
chances di vittoria ma è vero altresì che la coalizione berlusconiana è
in grande ritardo sulla via della formazione di un partito unico. E
questo, agli occhi di chi come noi ha a cuore la stabilità e la
funzionalità del sistema politico italiano, peserà. Silvio Berlusconi è
ancora in tempo per dare un’accelerazione a questo progetto che ha
sempre dichiarato essere il suo. Se lo facesse questa sarebbe una
seconda positiva sorpresa che darebbe un carattere storico a questa
campagna elettorale.