La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una
Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo
che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della
legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative
concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di
legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti,
si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere
su una legalità ridotta a fantasma senz´anima.
La difesa della
Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia
delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una
cosa è l´incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità
costituzionale.
Ma, cosa diversa è l´anticostituzionalità, cioè il
tentativo di passare da una Costituzione a un´altra. Contro
l´anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento
spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos´è,
dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o
di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto
terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla
psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è
un´epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno
incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un
dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai
propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla
propria privata libertà. L´ossessione per “il proprio” ha, come
corrispettivo, l´indifferenza e, dove occorre, l´ostilità per
“l´altrui”.
In termini morali, quest´atteggiamento implica una
pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la
semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il
nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e
discriminazioni.
Esempi? “A casa nostra” vogliamo comandare noi:
espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà
tutt´altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur
vivendo accanto a noi, sono come “in casa altrui”, nella diaspora,
senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza.
Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d´ingresso
determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto
eccede, ne facciamo dei “clandestini”, trattandoli da delinquenti. Non
pensiamo che anche noi, gli “aventi diritto”, portiamo una
responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle
stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l´appunto,
da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai
margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà).
Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i
pollici, grandi e piccoli, perché lascino un´impronta. Basta non
guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti
seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non
abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro.
Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno.
L´indigenza
si diffonde? Istituiamo l´elemosina di Stato. Si crea così una frattura
sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si
rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri,
non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali,
il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di
disuguali, l´unilateralità è la premessa dell´ingiustizia, della
discriminazione, dell´altrui disumanizzazione. Quando si prende questa
china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in
nome della sicurezza.
Ma questa è anche un´epoca di restrizione
delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli
altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei
medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di
trovare la nostra sicurezza. L´esistenza in grande appare insensata,
anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche
create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità
sospettose l´una verso l´altra; l´Europa segna il passo. Le riduzioni
di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di
relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in
una spirale che distrugge l´interesse generale e i suoi postulati di
legalità, imparzialità, disinteresse personale.
La legge uguale per
tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che
denominiamo “familismo” crea cricche politiche e partitiche, economiche
e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro,
dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere
protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss,
da amico ad amico e ad amico dell´amico, secondo la legge
dell´affiliazione. Sul piano morale, quest´atteggiamento valorizza come
virtù l´appartenenza e l´affidabilità, a scapito della libertà. Sul
piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e
nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra
“famiglie”. Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione
della repubblica di cui parla l´art. 1 della Costituzione, da
intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo
consenso circa l´utilità comune.
Della diffidenza e della chiusura,
conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si
procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici,
cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che
una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con
esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati
sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica
alleata all´economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze
paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu,
trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta,
travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di
guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di
futuro contiene un´autorizzazione in bianco alla consumazione
nell´immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per
l´avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell´azione
pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini
costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la
sostituisce con una gestione d´affari a rendita immediata.
* * *
Tutto
ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che,
oltretutto, non rispecchiano l´intera realtà costituzionale, per nostra
fortuna fatta anche d´altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c´è
di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e
le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza – visione parziale
delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di
futuro – hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale.
Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi
specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che
cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si
chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee,
non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché
convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale
calante, costrizione crescente.
Non è forse questa la nostra china
costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio,
indifferenza per l´universalità dei diritti, per la separazione dei
poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni,
per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per
l´indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per
ciò qualifica come “liberale” una democrazia; sostegno, dall´altro,
alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del
potere, alla democrazia d´investitura, all´antiparlamentarismo, al fare
per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica
invece come “autoritaria” la democrazia.
La sintesi potrebbe
essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all´epoca delle
nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate
dall´opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil
constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi
avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione».
In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla,
perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi
l´aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso
concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo
basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi
obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che
con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova
legittimità costituzionale.
La Costituzione non ammette questo
modo di ragionare. Non c´è consenso che possa giustificare la
violazione delle “forme” e dei “limiti” ch´essa stabilisce (art. 1). Ma
questa è legalità costituzionale.
Pensare di sostenere una legalità
traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è
come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri
capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida
della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri
comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di
valida sostanza, non è l´espressione o la copertura di un mondo senza
futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina
indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici,
naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s´è detto. Se la
crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da
qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e
soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e
sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e
progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice,
per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo
attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità
illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e
classico della parola. Ci si dovrà ritornare.