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14 Giugno 2007

La città ferita che non vuol morire

Autore: Gad Lerner
Fonte: La Repubblica

Torno per la prima volta dopo cinquant’anni nella città in cui sono nato – posso tornarci solo grazie al passaporto prezioso della nuova patria che si affaccia sulla sponda nord dello stesso mare – ma il tuono di un’autobomba mi comunica subito che questo Libano rischia davvero di morire ammazzato nel volgere di pochi anni. Distrutto, non si sa bene da chi, in ciò che di più prezioso aveva: la pluralità levantina delle sue genti predestinate a convivere fra la Montagna e la costa.Dove significa poco separarsi fra cristiani e musulmani perché i maroniti non sono la stessa cosa dei greco-ortodossi, i sunniti devono fare i conti da sempre con i drusi, mentre gli stessi sciiti oggi riuniti nel Partito di Dio (Hezbollah) oscillano fra il riferimento all’Iran e l’obbedienza siriana. La storia ci dirà il significato di questa eventuale perdita, se non saremo capaci di scongiurarla: ma è chiaro che le ripercussioni sarebbero nefaste sull’intero Mediterraneo se per disgrazia il pluralismo etnico e religioso rimanesse confinato nelle sole città europee, dall’altra parte del mare. Solo ieri i più mondani fra i beirutini avevano rimesso il naso fuori casa, dopo le bombe dimostrative della settimana scorsa.

Era atteso, l’attentato, da questi cittadini dotati di un sesto senso per le calamità. Semivuoti i locali notturni di Ashrafiyeh e di Hamra. La paura aveva sospinto i benestanti a caccia di dolce vita sul mare, nei nuovi docks fortificati di Biel, dove si erano ritrovati un po’ timorosi ma sorridenti ad ascoltare le canzoni di Mika sorseggiando kir, proprio come sulla Costa Azzurra ma in locali decisamente più eleganti. Lo stesso deserto spettrale ho trovato oggi sul lungomare di Tripoli, di solito affollatissimo. Lì il senso di pericolo era più immediato, a pochi chilometri dalla battaglia che infuria nel campo palestinese di Nahr el-Bared preso in ostaggio dai jihadisti di Fateh el-Islam: l’intera città è presidiata dai blindati dell’esercito libanese alla sua prima, sanguinosa, prova del fuoco. È proprio rientrando a Beirut da Tripoli che ho udito il boato e ho visto la colonna di fumo levarsi altissima sulla Corniche, sovrastando la ruota del luna park. Ci siamo precipitati a al-Manara mentre gli impiegati dell’Hotel Mediterranee già spazzavano le vetrate infrante. Mi sono arrampicato su un camion dei vigili del fuoco per osservare l’orrore nella viuzza degli autoscontri, fra lo Sporting e la marina degli “ascari”, cioè dei militari, a ridosso del popolare caffè Rawda affacciato sul mare.

L’autobomba frantumata e subito dietro, ancora in fiamme, la vettura con a bordo Walid Eido, presidente della Commissione Difesa, suo figlio Khaled e due guardie del corpo. Spento il fuoco, hanno potuto solo ricoprirne i resti con delle lenzuola e contare i corpi senza vita dei passanti. La Corniche è spaventosamente deserta, il proverbiale tramonto di Beirut stasera non ha ammiratori. I militari l?hanno chiusa al traffico, compreso il passaggio di fronte all?hotel Saint George dov’era esploso il 14 febbraio 2005 il convoglio del presidente Rafik Hariri. Lo avevano riaperto dopo più di due anni solo una settimana fa, per celebrare cosi’ l’approvazione all’Onu della risoluzione 1757 che istituisce il Tribunale internazionale su quell’omicidio fatale che ha spezzato il percorso d’emancipazione libanese. Eppure, nel terrore, questo Libano è un paese libero, alacre. Dove la speranza subentra rapidamente alla disperazione, e viceversa. Eliminare il deputato Walid Eido ha molti significati. Colpisce il nuovo protagonismo dell’esercito libanese, debole ma finalmente attivo contro un nemico che ha assunto le sembianze di al Qaeda. Scandisce la terribile roulette russa finalizzata a ridurre sotto quota 65 i deputati intenzionati a eleggere il prossimo settembre un nuovo presidente della Repubblica al posto del filosiriano Emile Lahoud.

Adesso tra defezioni e omicidi ne restano solo 68. E del resto sono mesi che il Parlamento non si riunisce, paralizzato da un’opposizione che ha piantato le tende di fronte al Gran Serraglio, sede del governo Siniora, per costringerlo alle dimissioni e restituire potere a Damasco. Ma soprattutto in Walid Eido gli assassini hanno individuato un portavoce autorevole del nuovo movimento “Corrente futura” animato da Saad Hariri, figlio di un presidente-martire la cui effigie campeggia su tanti palazzi di Beirut a indicare l’impegno per l?indipendenza libanese. Contro la Siria, contro l’Iran e contro Israele, cioè contro un destino che vuole il Libano terreno disgraziato di una guerra regionale manovrata dall’estero. Quel Libano dove le donne del Golfo arrivano per togliersi finalmente il velo e indossare gli abiti provocanti che piacciono ai loro mariti businessmen del petrolio e delle costruzioni. Che incontrano qui i banchieri e i finanzieri europei col doppio passaporto: gli affari a Ginevra e Montecarlo, le case sontuose nel nuovo centro storico ricostruito da Hariri dopo quindici anni di guerra civile. È l’eterno fascino del Levante, l’energia millenaria che ha fatto del Mediterraneo un epicentro cosmopolita di civiltà e benessere. Per quanto tempo ancora?

Rischiamo di sottovalutare quanto ciò dipenda proprio dalla sorte di un Libano che rischia non solo di ritornare protettorato siriano, ma di rappresentare un innaturale sbocco dell’Iran sul mare nostrum. Spaccandosi fra chi ormai vuole solo sentirsi europeo né metterebbe mai piede nei quartieri occidentali sciiti ancora sfregiati dalle macerie dei bombardamenti israeliani dell?estate scorsa; e dall’altra parte la massa degli innamorati delusi dall’Europa che inseguono un’impossibile Nahda, la rinascita araba, mitizzando la Turath, cioè il retaggio del passato. I protagonisti della Rivoluzione dei cedri di tre anni fa contano ormai troppi intellettuali, giornalisti, politici coraggiosi stroncati da mani misteriose ma esperte. Mentre i boulevards della parte sciita sono tappezzati dalle immagini di altri martiri: i combattenti caduti nella guerra del luglio 2006 contro Israele, mitizzata come una vittoria. Tra i due fronti difficilmente potrà riaccendersi un’altra guerra civile: le si oppone la memoria troppo fresca delle atrocità perpetrate fra il 1975 e il 1990; ma anche il rimescolamento di alleanze che vede i nemici di ieri, sunniti, maroniti e drusi, oggi riuniti nella difesa di un Libano nazione indipendente. Contro Hezbollah, filoiraniano o filosiriano che sia. Respiro disperazione ma anche un grande amore per la libertà. Beirut non è la derelitta striscia di Gaza.

Qui la vita pulsa e alle disgrazie si oppongono sempre nuove idee di sviluppo, animate da quello spirito levantino che affonda le sue radici in un legame millenario con l’Europa. Recidendolo, abbandonando il Libano a se stesso, l?Europa non commetterebbe solo un tradimento: contravverrebbe ai suoi interessi storici vitali. È per questo che sono così benvoluti i soldati dell’Unifil, e gli italiani più di tutti. Il pericolo coloniale viene da altrove. Nessuno si sogna di minacciare i nostri. Se abbandonassero il campo, sarebbe un evento luttuoso per i libanesi. La mia terra natale vede affievolirsi le sue energie plurali ma non è ancora morta. Stasera mi telefonano in albergo per raccomandarsi di non uscire. Il lutto si osserva tra le pareti domestiche di una Beirut attonita, spaventata, di colpo silenziosa. Ma sono sicuro che già domani arriveranno di nuovo gli inviti a cena. E prima ancora, speriamo, arriverà la voce della protesta democratica che reclama il diritto alla bellezza, dalla Corniche insanguinata fino alla Montagna.