Dopo le polemiche e le dispute delle ultime settimane, viene da sorridere di fronte alla notizia che Massimo D’Alema era deputato non al Parlamento italiano, bensì al Parlamento europeo, all’epoca delle ben note intercettazioni telefoniche in cui fu indirettamente coinvolto nell’estate del 2005, all’interno dell’inchiesta milanese per l’«affare Unipol-Bnl». Viene da sorridere, soprattutto, di fronte all’incredibile sequenza di sviste che ha costellato l’intera vicenda politico-giudiziaria, a causa dell’erroneo presupposto che, in quel tempo, D’Alema rivestisse la qualità di membro della nostra Camera dei deputati (e che, perciò, dovesse essergli applicata la legge speciale dettata per simili ipotesi).
Una svista che risale, anzitutto, agli organi della magistratura milanese (dai magistrati della procura al gip), che hanno a vario titolo sollecitato l’autorizzazione della Camera all’utilizzo, nei riguardi degli indagati non parlamentari, delle intercettazioni di cui D’Alema era stato interlocutore occasionale.
Ma anche, nel contempo, una svista da cui non è stata esente l’apposita Giunta di Montecitorio, che prima di accorgersi (soltanto ieri) dell’equivoco, aveva dedicato diverse sedute a discutere anche sul «caso D’Alema ». Ed infine, paradossalmente, una svista che non ha risparmiato nemmeno i difensori dello stesso D’Alema, dalla cui memoria difensiva non risulta alcuna eccezione imperniata su tale erroneo presupposto.
Adesso non sembra dubbio che la Camera dei deputati debba dichiararsi incompetente a decidere sulla questione riguardante D’Alema, in quanto all’epoca non era Si sono sbagliati persino i suoi difensori «membro del Parlamento» (come del resto era già accaduto nel 2003 in occasione dell’analogo «caso Gianni»), e debba perciò restituire gli atti, per questa parte, al gip di Milano.
Il quale potrà, se del caso, rivolgere ai competenti organi del Parlamento europeo una richiesta simile a quella irritualmente rivolta alla Camera. Salvo doversi precisare, però, che appare assai discutibile se possa farsi rientrare nell’ambito delle «immunità», da riconoscersi ad un parlamentare europeo, anche quella particolare disposizione della legge italiana, che impone al giudice di ottenere il nulla osta della Camera di appartenenza per utilizzare, anche soltanto a carico di terzi, le intercettazioni accidentalmente operate nei confronti di un «membro del Parlamento».
Per il resto, l’inevitabile stralcio della posizione di D’Alema non dovrebbe in alcun modo influire sulle decisioni che, tra una settimana, la Giunta per le autorizzazioni della Camera dovrà assumere rispetto alla richiesta proveniente dal gip Forleo, ormai soltanto in rapporto alla posizione dei deputati Fassino e Cicu, peraltro non indagati. Anche prescindendo dalle telefonate intercettate con riferimento a D’Alema, infatti, il problema della suddetta Giunta rimane essenzialmente quello di verificare
La giunta deve verificare se esistano atti persecutori se le intercettazioni indirette delle conversazioni cui abbiano preso parte i deputati Fassino e Cicu possano configurarsi come atti persecutori, o altrimenti lesivi delle prerogative parlamentari spettanti ai suddetti deputati.
Per conseguenza, ove tale verifica dovesse dare esito negativo, come sembra innegabile alla luce degli elementi finora emersi (né in senso contrario possono deporre alcune pur abnormi affermazioni contenute nell’ordinanza del gip Forleo, poiché l’eventuale «fumus persecutionis » dovrebbe inquinare di per sé proprio l’atto di intercettazione), la conclusione non potrebbe essere se non nel senso di accoglimento della richiesta avanzata dalla magistratura milanese.
Ed è quello che ci si augura (non foss’altro per ovvie ragioni di trasparenza e di completezza probatoria), così da consentire l’utilizzo delle suddette intercettazioni nei confronti dei soggetti terzi indagati, cui si era riferita l’iniziativa del pubblico ministero.