Era prevedibile. L’amnistia, in politica, è una brutta bestia. C’è chi ci crede davvero, come valore in sé, rituale di una giustizia mite. C’è chi la usa per rifare il lifting alla propria immagine di garantista, raggrinzita da servizievoli pratiche verso il potere ingiusto. C’è chi la usa per lucidare in chiave più umana il proprio verbo di cattolico ortodosso. C’è chi la usa perché il garantismo ha comunque un mercato politico. E ci sono ancora tanti «chi». Fatto sta che se così stanno le cose – e così stanno – non c’è affatto da stupirsi nel vedere giungere alla Camera meno della metà dei deputati che hanno firmato solo alcuni giorni fa la richiesta di una seduta straordinaria da dedicare a questo tema da sempre controverso.
Colpa di Casini e del calendario scelto? Forse anche. Ma è arduo sostenere che sarebbe andata meglio la vigilia di Natale o sotto Capodanno o nei primissimi giorni di gennaio. L’amnistia fu al centro del dibattito già dopo la visita di Giovanni Paolo II in Parlamento. Chi aveva sensibilità doveva usarla lì, di fronte a quel richiamo che trascendeva le ragioni della politica e della coscienza che sconfinava nelle pieghe dell’anima; doveva farsi penetrare dal quel messaggio allora e poi assumersi la responsabilità di trasformarlo in scelta politica. Non andò così. Venne fuori la proposta dell’indulto, per ragioni che anche ieri sono risuonate nell’Aula di
Montecitorio. È giusto, o ha senso, svuotare le carceri, alleviare le sofferenze di chi qualcosa ha già pagato; non ha senso procurare impunità indifferenziate, giungendo in soccorso di chi sta fuori ottimamente difeso e ha solo il disturbo di un processo. Ma anche la proposta dell’indulto benché forte di appoggi trasversali, venne limata, contenuta, smussata; fino a far nascere l’«indultino», forse il massimo che potesse partorire il contesto politico di questa legislatura. Perché poi, nello stesso identico contesto, a centinaia abbiano ritenuto di poter offrire e quasi promettere l’amnistia ai detenuti, questo per me rimane un mistero. Va da sé che lo spirito della richiesta ha un suo senso, tocca corde umane e civili che per fortuna suonano ancora, esorta tutti a riflessioni più serie e coraggiose dell’usuale. Ma chi ha già vissuto la vicenda dell’indultino ha avuto modo di chiarirsi molto bene lo stato delle cose presenti.
Ha potuto misurare dall’interno atteggiamenti e sentimenti, calcoli e possibilità. E ha, anche, potuto registrare la maggiore complessità – culturale, giuridica – che un’amnistia odierna comporterebbe rispetto a quindici anni fa. Né, vorrei aggiungere, sfugge certo ai parlamentari la qualità del nuovo sistema elettorale e il grappolo variegato delle sue implicazioni. Davvero vogliamo credere che in un sistema rappresentativo organizzato per liste di partito, con il proporzionale nuovamente imperante, un partito come la Lega voglia rinunciare a fare fino in fondo la faccia feroce, di paladino di cittadini onesti, della certezza della pena, proprio lei che ha un ministro della Giustizia che si è battuto al limite della Costituzione per negare la grazia a Sofri e oggi nemmeno davanti alla sua malattia tradisce uno scrupolo in più? Un ministro della Giustizia che, se ben ricordo, definì «hotel a cinque stelle» il carcere di Cagliari pochi giorni prima che vi si ammazzassero due detenuti?
E si pensa che Alleanza Nazionale possa cedere il passo alla Lega nel presentarsi come il partito dell’ordine e della sicurezza dopo avere già messo la patria sotto il tappeto della devolution, dopo aver votato senza fiatare le leggi dell’impunità? Che possa cioè rinunciare gratis a quel che resta della sua immagine presso il proprio elettorato più tradizionalista?
Certo, Forza Italia è sotto questo profilo un po’ diversa. Ma anche lei compete per i voti. Anzi, si gioca il primato nella coalizione, visto che gli alleati puntano proprio su questa legge elettorale per competere con lei, per ingrassare – loro – della sua crisi. E un leader che per mesi e mesi non ha l’elementare coraggio di mandare a casa Fazio può avere mai il coraggio di farsi carico di una parola d’ordine così impegnativa in campagna elettorale? E l’Udc, se davvero avesse voluto l’amnistia, non si sarebbe mossa già anni fa, almeno per compiere un gesto di riconoscenza verso un grande Papa prima che morisse? Per offriglierla, l’amnistia, come ultima e più grande testimonianza d’amore e di spirito filiale?
Tutto questo era limpidamente squadernato davanti a noi. Perciò, sul piano umano e politico, non è stato il massimo della responsabilità fare intravedere alle masse dei detenuti la possibilità di un’amnistia in arrivo a settimane. Non era difficile capire. Così come, aggiungo, non è difficile capire che il centrodestra aspetta solo che l’opposizione chieda un’amnistia sotto elezioni per azzannarla alla gola. Per riprendersi quella rendita di posizione sulla sicurezza che fu probabilmente decisiva nel 2001 e che si è molto assottigliata in questi anni, per demerito degli uni e merito degli altri. Rinunciare dunque ai progetti di diritto mite, per usare la bella espressione di Gustavo Zagrebelsky? Rinunciare a ogni idea di clemenza? No.
Ma certo la prima cosa da evitare, se si vogliono davvero difendere le condizioni di vita dei detenuti, se si vogliono promuovere le pene alternative al carcere, se si vuole valorizzare la dimensione restitutiva rispetto a quella afflittiva della pena, è che torni al governo il centrodestra, magari sull’onda di una bella campagna securitaria a colpi di televisioni. Solo così si potranno fare riforme organiche e affrontare un tema tanto delicato e complesso come quello dell’amnistia (sono cambiate sia la qualità dei reati perseguiti sia, ancor più, la composizione della popolazione carceraria) con la dovuta serietà. Soprattutto occorre evitare che torni il governo di centrodestra – finalmente – la giustizia si faccia carico degli «ultimi» almeno quanto dei «primi».
Già, perché in tutto questo c’è qualcuno che dal punto di vista morale davvero non dovrebbe sapere da che parte voltarsi, davanti alla richiesta di clemenza che sale dai dannati della terra. Ed è la maggioranza di governo.
Questa maggioranza che un’amnistia mascherata la stava già facendo (decine di migliaia di processi all’anno, decine di migliaia di imputati amnistiati senza avere mai messo un piede in carcere) con la prima versione della Salvapreviti. Questa maggioranza che ha chiuso l’anno solare in Senato «incardinando» a rotta di collo l’ultima legge ad personam per il premier, quella che abolisce il processo di appello se la sentenza di primo grado è di assoluzione. La maggioranza che, in Senato, riprenderà i suoi lavori dopo Natale avendo all’ordine del giorno esattamente quella legge, ultima vera incombenza prima che si chiuda la legislatura. Perché la faccia e il coraggio di fare un’amnistia sotto elezioni insieme con l’opposizione mancano del tutto. Ma la faccia e il coraggio di fare un’ultima amnistia solo per se stessi quelli non mancano di sicuro. Anzi, è un dovere.