Quando si è sopraffatti da un cumulo di problemi, è buona cosa fare lo sforzo di isolarli, metterli in fila, stabilire se vi siano nessi tra loro. Di recente, si sono poste prepotentemente alla nostra attenzione tre questioni: la discussione sui costi della politica, quella sulla prova elettorale, infine quella del rapporto tra premiership e leadership del PD. Tre questioni distinte e tuttavia – azzardo – con una radice comune.Prima questione. Dopo la sferzante provocazione di Montezemolo, l’allarme di D’Alema e il libro-denuncia. ‘La casta’, si è aperta una vivace discussine sui costi della politica, sui rischi dell?antipolitica, sulle possibili derive populiste o tecnocratiche. Le voci meno reattive è più mature – penso a Walter Veltroni o a Mario Monti -, pur riconoscendo che il problema esiste eccome, hanno saggiamente osservato che, prima e più che nei privilegi del ceto politico, il costo più insostenibile per il paese sta in un sistema politico-istituzionale ingessato, inefficiente, vistosamente deficitario nel rendimento e nell’attitudine ad assumere decisioni. A fronte di un’economia e di una società moderne, dinamiche, integrate in un contesto globale. Seconda questione: la scoppola elettorale. Sulle prime abbiamo minimizzato, poi un esame più accurato e onesto, ci ha costretto a misurarne la portata critica. Specie ma non solo al nord.
La doverosa lettura critica dell?anno di governo alle nostre spalle ci ha suggerito molteplici spunti, ha messo in luce errori e omissioni. E tuttavia, ben al di là delle responsabilità soggettive, imputabili al governo dal premier in giù, a mio avviso, la madre di tutte le cause è rappresentata di nuovo da quella, di natura strutturale e oggettiva, riconducibile a un sistema politico- istituzionale che inibisce la governabilità. Dalla regola elettorale al bicameralismo, dalla forma di governo al formato e ai conseguenti comportamenti di coalizioni meramente elettorali. Dentro l’attuale congiuntura critica, riesce comodo intestare la responsabilità a un capro espiatorio e imboccare la scorciatoia fideistica dell’affidamento a un capo che ci cavi di impiccio. Ma, appunto, di scorciatoia e di illusione si tratta. Basterebbe rammentare che lo stesso esecutivo Berlusconi, che pure vantava una maggioranza schiacciante ed era capeggiato da un premier vocato al leaderismo, non solo governò male, ma, più esattamente, specie nella seconda parte della scorsa legislatura, non governò affatto, in quanto imbrigliato dai conflitti e dai veti opposti dai suoi alleati.
Terza questione. La stessa disputa circa il rapporto tra premiership e leadership del PD va inscritta nel medesimo quadro. Qui confesso un certo imbarazzo. Passo per ‘prodiano’ e dunque sono sospetto di prendere le difese di una persona. In realtà mi considero soprattutto ulivista, cioè fermamente ancorato a quell?ambizioso progetto politico-istituzionale innovativo e riformatore cui abbiamo dato il nome di Ulivo già dodici anni or sono. La tesi della coincidenza tra leader e premier non ha nulla di personale, è questione squisitamente politica e istituzionale. Del resto, basterebbe guardarsi intorno: nelle democrazie contemporanee il leader effettivo del maggior partito coincide con il premier. Se la radice dei nostri problemi sta nell’esigenza di passare da una democrazia della mera rappresentanza a una democrazia governante, che non si contenti di rappresentare i problemi ma che si proponga di risolverli efficacemente e tempestivamente, abbiamo bisogno di dare forza politica al premier, non di indebolirlo.
In gioco sono anche la concezione e il profilo del PD: un partito tra gli altri ovvero – come io penso – un partito a vocazione maggioritaria, che certo sa di non coincidere con il tutto della coalizione, ma che, in certo modo, si comporta come se lo fosse, facendosi
carico della tensione alla sintesi.
Un po’ come hanno fatto e fanno i gruppi parlamentari dell’Ulivo: unitari e fattori di unità dell’insieme. Domando: avendo misurato quanto sia difficile ricondurre a sintesi una maggioranza e un governo così frammentati, davvero si pensa che il premier sia agevolato nel suo compito della novità di un PD dotato di una leadership autonoma che inesorabilmente sarebbe indotto a marcare i propri distinguo, che si comporterebbe alla stregua degli altri partiti e partitini? Come non avvertire che la dissociazione tra premiership e leadership sottintende un PD che, anziché forza di stabilizzazione, si trasformerebbe in fattore destabilizzante per il governo, come già si intuisce in queste ore? Ci dovrebbe soccorrere un po’ di memoria storica. Penso alla marcata distinzione, in casa alla DC, tra segretario del partito, vero depositario del potere politico, e premier di turno. Penso all’allergia di quel partito per le leadership forti e per i doppi incarichi, da Fanfani a De Mita, puntualmente impallinati. Ma quello era il tempo di una democrazia bloccata, segnata dal paradosso (di cui conosciamo la ragione storico-ideologica, ma certo pagato a caro prezzo) di un massimo di immobilismo politico cui corrispondeva un massimo di instabilità dei governi.
Domando: possiamo permetterci oggi governi che durino mediamente dieci mesi dentro un Europa e un mondo integrati? vogliamo rinunciare al principio di una fisiologica alternanza?Mi sorprendo che, per lo più, nella disputa contingente sulla leadership del PD, non si tematizzi la questione di sistema qui accennata. Essa concerne problemi concretissimi, non riflette l’affezione a un?astratta modellistica riservata ai politologi. In gioco sono la stabilizzazione del bipolarismo, il rafforzamento di una democrazia competitiva e governante. A meno che qualcuno abbia in mente cambi di maggioranza, la teoria della reversibilità delle alleanze, modelli politici neoconsociativi.