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26 Luglio 2006

In cerca di una svolta

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Non stupisce che molto rapidamente, negli ultimi giorni, si sia giunti alla decisione di convocare una conferenza internazionale sul Libano. Ha contato molto lo stato di profonda apprensione creatosi in Europa, e ha contato la maniera in cui il governo italiano ha condiviso quest’apprensione non solo a parole, ma preparando in poche ore il vertice che oggi si terrà a Roma. C’è stata la combinazione fra la presenza di spirito di D’Alema e il desiderio, forte in Prodi, di suscitare in Europa una volontà di contare, dopo le divisioni su Iraq e Usa. Di conflitti arabo-israeliani se ne sono visti tanti, ma è come se questa volta tutti fossero più in pena; come se fossimo, in Medio Oriente, a una svolta. E infatti la svolta c’è: c’è un cambiamento di minacce, di guerre. C’è una lotta mondiale antiterrorista che ha aumentato il terrore anziché addomesticarlo. Ogni cosa, in questa zona, è da rifare, da ripensare, se non si vuol precipitare in conflitti che nessuno controlla e che per Israele rischiano di divenire davvero esistenziali, non più connessi a condotte coloniali.

Tale sensazione è molto diffusa, e per questo non stupisce la rapidità con cui si è passati dalla retorica all’ansia di fare. Non è detto che la conferenza condurrà al cessate il fuoco, e all’invio di truppe internazionali. Ma la volontà di agire c’è, almeno in Europa, e questo è il suo momento perché l’America insabbiata in Iraq non è oggi né forte né dissuasiva. Restano tuttavia le differenze sui modi di vedere la svolta. Grosso modo, tutti son convinti che Olmert ha agito per legittima difesa, anche se con devastante violenza: il Sud Libano non era occupato, anche se quotidianamente aerei da ricognizione israeliani sorvolavano il suo spazio e anche se esistono le fattorie di Shebah, che Israele non ha restituito. Ma l’attacco di Hezbollah si proponeva qualcosa di più, e per volontà dell’Iran mirava al cuore d’Israele. È l’Iran che guerreggia infatti per la prima volta con una potenza legata all’Occidente, e questo è elemento cruciale della svolta.

La guerra che sta distruggendo il Libano e la sua democrazia multiconfessionale è in realtà la prova generale d’un conflitto più vasto, voluto dagli sciiti di Teheran con l’intento di dominare il mondo arabo e di divenire una potenza atomica. Per la prima volta dalla guerra di Saddam contro Khomeini, Israele e chi l’appoggia combattono con l’Iran, anche se per interposta persona. È il motivo per cui Bush ha esitato, prima di tentare la pacificazione delle ultime ore. In fondo questa guerra sperimentale (quasi una guerra di Spagna, in cui l’Iran si esercita per un conflitto più ampio) non le dispiace.

La conferenza di oggi a Roma ha scopi minimalisti – tregua, forza di interposizione, aiuti umanitari – ma i partecipanti sanno la vera natura della svolta. Più la renderanno esplicita nei colloqui fra loro, più possono sperare di fronteggiarla. Ma veniamo ai diversi modi di percepire la svolta. Sono giorni che Condoleezza Rice parla di «Nuovo Medio Oriente», a Gerusalemme, e la sua visione non coincide con quella di molti europei. Per Bush la svolta consiste nell’aggravamento di qualcosa che egli denuncia da anni: l’esistenza di un asse del Male, composto da Iran e Siria, Hamas e Hezbollah. Israele condivide questo modo di vedere, così come condivide l’idea dell’esportazione della democrazia. Un’idea che si sta rivelando deleteria, rabberciata: la democrazia non porta pace, se gli Stati non controllano né territorio né milizie. Il crollo della democrazia libanese prefigura quello della Palestina, se quest’ultima non avrà i mezzi per monopolizzare la violenza. Per altri, e fra essi molti europei e un certo numero di commentatori israeliani, questo è un momento di svolta che obbliga a correggere rotta, nei Paesi arabi ma anche in Israele. Far fronte alla svolta vuol dire dunque riconoscere gli errori commessi, e suddividere l’universo nemico in cui s’è fin qui visto un asse monolitico. Solo dividendo si analizza, e solo analizzando si cura il male di guerre divenute affari di vita e di morte.

Innanzitutto si tratterà di dividere la Siria dall’Iran: cosa che perfino Washington comincia a fare. La Siria è un regime fragile, anche quando assiste Hezbollah, e non esclude negoziati. È anche sunnita: cosa che può favorire il suo distacco dall’Iran. Ma per aprire alla Siria bisogna darle qualcosa. Molti dimenticano che Israele ha il Golan da restituire, e non sarebbe avventato che lo facesse: le risoluzioni Onu non sono violate solo dal Libano, ma anche da Israele.

Si tratta poi di separare Hezbollah da Hamas, il Libano da Gaza. Hezbollah è uno stato nello Stato, che impedisce a Beirut di essere minimamente sovrano: la colpa è del Libano, ma distruggere il suo popolo aiuta solo a creare risentimento, non solo terrorista. Hamas è invece governo, Stato. E qui si tocca il punto centrale, che spiega il marcire della crisi. Israele vive una guerra ormai esistenziale perché ha sistematicamente rinviato le scelte, sulla natura degli Stati che vuole attorno a sé e in primis sullo Stato palestinese. Si è ritirato dal Libano, da Gaza, ma sempre unilateralmente, senza cercare nella controparte un interlocutore con cui disciplinare il dopo-ritiro. Questo unilateralismo è oggi in frantumi: perché ha rafforzato l’inimicizia della controparte, perché ha trascurato la questione della sovranità minima. Molti Stati attorno a Israele sono fittizi (Israele per primo non è sovrano, dipendendo dall’America) ma il monopolio della violenza tutti devono averlo. Solo ora, il mondo sembra accorgersi che il Libano senza questo monopolio è dinamite.

La Palestina rischia la stessa catastrofe, se Israele non le dà i mezzi per divenire uno Stato fatto di Gaza e Cisgiordania, non spezzato da colonie israeliane.

Restaurare la capacità israeliana di dissuasione è a questo prezzo: funziona meglio con Stati funzionanti, che con milizie e anarchia. Tutto il mondo arabo è al bivio, ma anche Israele lo è. Quello che accade non affossa i passati sforzi di pace. Affossa una linea che ha voluto la pace senza politica. Restituire tutti i territori resta l’unica via, per dividere gli arabi e isolare gli oltranzisti.