ORMAI si avverte un certo scoramento. E la sensazione più diffusa è quella tristemente nota del navigare a vista: con la fragile imbarcazione che dovrebbe condurre l’Unione all’approdo del governo che scarroccia di qua e di là, in balìa delle correnti. Il timoniere è indeciso, incerto; la navicella fragile; l’equipaggio nervoso e diviso sulla rotta da seguire. Diciamo la verità, ancora all’alba del 10 aprile – appena tre settimane fa – nessuno avrebbe immaginato un avvio di maggio così: fatto di risse a bordo, di ufficiali che si ammutinano, di mozzi e marinai – perfino – che minacciano l’abbandono della nave.
Infatti, «la nostra debolezza sarà la nostra forza» aveva annunciato Romano Prodi, cercando di infondere coraggio ad una coalizione annichilita dal risultato elettorale. Ma in politica, purtroppo, è cosa rara riuscire a trasformare la debolezza in forza. Ed è con questa consapevolezza, forse, con questa necessaria prudenza, che l’imbarcazione di Romano Prodi avrebbe dovuto cominciare la sua navigazione verso mete diventate d’improvviso perigliose. E invece niente: tutti a prodursi in prove di forza, una sfida dietro l’altra, un sommarsi confuso di ambizioni confuse, una voglia di assalto all’arma bianca, fino a ritrovarsi nella notte buia del Senato, fino a scoprirsi dipendenti dal voto di un premio Nobel centenario. E per venire a oggi, fino ai bassi fondali e alle secche sulle quali giace incagliata la fragile imbarcazione dell’Unione: mentre all’orizzonte, intanto, si stagliano i due capi più difficili da doppiare, il governo – certo – ma prima ancora la scelta del nuovo inquilino del Quirinale.
Fuor di metafora: molti elettori del centrosinistra si chiedono come questo sia potuto accadere. Come Bertinotti sia diventato presidente della Camera a dispetto di un D’Alema che ora, ferito e deluso, va menando colpi a destra e a manca; come si sia rischiato di consegnare il Senato a un «nonno» della Repubblica, come Andreotti, fuori da tutti i giochi da almeno dieci anni; perché si sia arrivati a cinque giorni dall’elezione del presidente della Repubblica senza uno straccio di idea sul che fare, senza mezza strategia, affidando il tutto a piccole furbizie o a duelli rusticani all’ombra dell’Ulivo e della Quercia. E come e quanto ci si sia esposti nel chiedere che prima venisse fatto il governo e poi eletto il Presidente, senza un minimo di affidamento che questo potesse accadere davvero: e che non sia accaduto, per di più, ora è quasi una fortuna, visto che – al di là degli ottimismi di maniera – la lista dei ministri del povero professor Romano Prodi somiglia più alla tela di Penelope che alla struttura di un esecutivo all’altezza dei problemi che ci sono.
E’ successo, prima di tutto, perchè l’Unione non ha vinto le elezioni a sufficienza, e ora fa i conti con margini di manovra ridottissimi e misura la delusione depressiva dei suoi leader, nessuno, diciamo nessuno – tranne, s’intende, Bertinotti – uscito dalle urne come sperava. Fassino è deluso, Rutelli non ha sfondato, Boselli e Pannella si leccano le ferite e Prodi è lì, stupito e incredulo, come chi – sicuro del trionfo – abbia dovuto aspettare dieci giorni prima di esser proclamato vincitore ma di poco. Dunque è successo per questo, prima di tutto: perché il voto non è andato come doveva e l’Italia non è precisamente quel che l’Unione aveva immaginato. Ma è successo – anzi sta succedendo – anche per questioni più di fondo lasciate lì, irrisolte, a marcire. Ce ne è una su tutte, naturalmente: il rapporto tra i partiti della coalizione e il loro leader, il loro presidente. Magari aveva ragione Rutelli – ai tempi della sua sfida 2001 con Berlusconi – a dire che «di là c’è un padrone, noi invece discutiamo»: resta il fatto che quando il Cavaliere decide una cosa, quella cosa si fa; quando la decide Prodi è il solito coro di dubbi e di distinguo. E i risultati di quest’ambiguità sono qui, sotto gli occhi di noi tutti.
E’ in queste condizioni, insomma – immutate nella dinamica e nei protagonisti dal 1996, cioè 10 anni fa – che il centrosinistra deve provare in un paio di settimane a eleggere un presidente e insediare il suo governo. Se non cambia nulla, sia l’elezione del primo che la formazione del secondo saranno nient’altro che la deprimente risultante di veti, sgambetti e scontri all’arma bianca. Per il Quirinale una soluzione forse c’era: chiedere per tempo, molto per tempo, un ultimo sacrificio a Carlo Azeglio Ciampi. Non è stato fatto per tanti motivi, ma anche perché gli appetiti intanto crescevano, c’era chi sperava di qua e chi tramava di là, meglio Amato, no meglio D’Alema, anzi è perfetto Napolitano: col risultato di precipitare nell’imbarazzo quando a «ricandidare» Ciampi – com’è accaduto ieri – ci ha pensato la Casa delle libertà. E comunque: i giorni per decidere che fare ora sono diventati cinque. Lunedì prossimo il Parlamento vota e l’Unione non sa ancora per chi farlo e perché. Ed eletto il Presidente – quando e come sarà eletto – toccherà rimetter mano alla lista di governo.
D’Alema è contro Fassino, Bonino è contro Mastella, Di Pietro impreca, Rutelli attende e i partiti – soprattutto Ds e Margherita – sono lì in fibrillazione. Vedremo come finirà, che cosa resterà del «i ministri li scelgo io» pronunciato da Prodi, cosa vedrà la luce di quel Grande Governo – pieno di tecnici e di competenze – promesso prima delle elezioni. E poi vedremo che sarà anche di quella sorta di reality senza fine che è il Partito democratico. Viste le convulsioni della Quercia e lo stallo della Margherita, si può dire quel che già qualcun altro ha annotato: prima del voto, per Fassino e per Rutelli quell’approdo era – forse – una scelta, una possibilità. Da dopo le elezioni è un’assoluta necessità. L’ultima occasione, diremmo, prima che nel centrosinistra si riscateni l’ennesimo Vietnam…