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1 Marzo 2007

Il tredicesimo punto

Autore: Vincenzo Vasile
Fonte: l'Unità

I 12 punti non negoziabili di Prodi // C’è un tredicesimo punto da aggiungere (e non certo in coda) all’elenco di obiettivi su cui il governo Prodi si appresta a riprendere il lavoro. Riguarda la mafia, e in particolare la mafia siciliana, detta Cosa Nostra.


Di cui si parla poco, troppo poco sui giornali (ogni tanto in tv mandano in onda una fiction, non sempre centrata). Ed è facile capire, anche se francamente inaccettabile, come la disattenzione dell’opinione pubblica, dei “media” e del ceto politico abbia un fondamento oggettivo, dal momento che la mafia non spara più come e quanto prima, e non commette più stragi, né delitti eccellenti.


Il fatto è che nel silenzio della mafia, nel silenzio sulla mafia, stanno uscendo a uno a uno dal regime del carcere duro tanti, troppi pericolosi capi e killer di Cosa Nostra. Uno che se ne intende, il pentito pugliese Salvatore Anacondia in un processo descrisse efficacemente qualche tempo fa la disperante sindrome mafiosa da applicazione del “41 bis”, l’articolo di codice di procedura che ha introdotto quel tipo di controlli stringenti dopo decenni di lassismo: «Signor giudice, io, nella ultima detenzione senza il 41 bis, le posso dire che ci avevo due telefoni cellulari, una pistola in carcere, cocaina, whisky, champagne, aragoste».

L’imputato spiegò che per i capimafia si è aperta come una voragine quando uno «da un giorno all’altro si vede inchiodato e senza fumare più, inizia a impazzire». Se il “41 bis” viene via via abrogato in modo strisciante, i capimafia non solo non rischiano più di andar fuori di testa.

È certo, è scritto nel Dna di Cosa nostra, è agli atti di interi scaffali di biblioteche e di carte giudiziarie, che essi – una volta usciti dal carcere duro – riprenderanno, o miglioreranno, i contatti con l’esterno, e ricominceranno a tessere trame, delitti e affari.


Nel frattempo, per di più, si è inceppato anche quello che per venti anni, dalle rivelazioni di Buscetta in poi, è stato il motorino di tanti processi e inchieste: vale a dire, si assottiglia e viene ormai considerato dagli addetti ai lavori ormai in esaurimento residuale il fenomeno del contributo dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, che in misura progressivamente minore vengono ormai sottoposti al “programma di protezione”.

I due convergenti fenomeni sono documentati rispettivamente da una relazione del Dipartimento penitenziario del Ministero della giustizia e dalle recenti dichiarazioni in Commissione antimafia del Superprocuratore Pietro Grasso.


Ci sono eventi da non trascurare. Tra i boss che oggi tornano, grazie a errate decisioni dei Tribunali di sorveglianza, a un regime carcerario normale (vale a dire abilitati a riprendere contatti con l’esterno, forieri di ordini sanguinosi e tessitura di relazioni e grandi affari), c’è un uomo del calibro di Antonio Madonia, rampollo di una famiglia che domina incontrastata nelle borgate occidentali di Palermo, e non solo, tra i capi del racket del pizzo, che significa in realtà dominate da Cosa Nostra, anche quando Cosa Nostra non spara, l’assoggettamento di pezzi di economia e di società e di territorio a norme e fiscalità alternative allo Stato di diritto; e tra i beneficati del declino del “41 bis” ci sono, tra gli alti, alcuni degli esecutori materiali della strage dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993).

Che è uno degli episodi chiave della campagna di sangue scatenata in “continente” nell’anno che segnò l’apice dell’iniziativa eversiva di Cosa Nostra. Cinque morti, tra cui un bimbo in fasce e 48 feriti.


Ricordate? 1993, stragi e bombe a Firenze, a Milano, a Roma, e un attentato rientrato in extremis, all’uscita di migliaia di tifosi dallo stadio Olimpico: quel 1993 è una data spartiacque, da segnare. Sulla quale non tutto è stato ancora chiarito.

Tranne un aspetto di fondo: quel terrore, quelle bombe e quei morti erano un terribile segnale cifrato che veniva lanciato dalla mafia (assieme a chi?) nel corso di una trattativa con alcuni pezzi di Stato, della quale vi sono le prove provate agli atti di numerosi processi, ma non si conoscono tutti gli scopi e gli attori.

Chi giocasse la partita attorno a quel tavolo, accanto a Cosa Nostra, chi assicurava garanzie politiche e promesse di impunità, sul piano giudiziario non è tuttora stato scoperto. Anche se è abbondantemente nota l’opzione mafiosa di quel periodo in favore della destra emergente, e in particolare per la allora neonata Forza Italia.


Ma alcuni degli obiettivi perseguiti da Cosa Nostra in quella “trattativa” si sanno bene: erano scritti in cima a un “papiello”, una specie di cahier de doleances, che fu redatto da Totò Riina, e che conteneva i “desiderata” di Cosa Nostra.

Al primo posto in quel documento, al primo posto in quella sanguinosa “trattativa” a colpi di bombe, c’era – per l’appunto – l’eliminazione del carcere duro e della legislazione premiale per i pentiti.

Quattordici anni dopo è molto grave rilevare come – nonostante i colpi inferti dalla repressione all’ala militare con la cattura dei capi corleonesi di Cosa Nostra – quegli obiettivi della mafia in qualche modo stiano per essere raggiunti. In modo carsico, senza bisogno di pubbliche retromarce legislative, ma nella silente pratica burocratica di ogni giorno.

Senza dubbio, questo è l’effetto di complicità più o meno dichiarate da chi – quand’era al governo – affermò programmaticamente di voler “convivere” con la mafia. Ma senza altrettanti dubbi, ciò può avvenire silenziosamente anche per la colpevole sottovalutazione di chi – senza aver “trattato” una tregua – volesse accontentarsi del silenzio (provvisorio) dei kalaschnicov mafiosi. E illudersi di potere tamponare ogni tanto qualche “emergenza”.


Ha fatto bene, dunque, il neopresidente della Commissione Antimafia, Francesco Forgione, a convocare il ministro Clemente Mastella, perché riferisca urgentemente delle valutazioni e delle intenzioni del governo.

E sarebbe meglio che questo tredicesimo punto, finora omesso, che proponiamo per il “rilancio” dell’azione di governo del centro sinistra, diventasse uno dei primi. Per fare l’esatto contrario riguardo alle priorità prescritte dal vecchio “papiello” di Totò Riina, che da qualche parte qualcuno deve avere conservato.