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7 Marzo 2005

Il sentimento nazionale

Autore: Ilvo Diamanti
Fonte: la Repubblica

C´è molto dello spirito nazionale, nel modo in cui gli italiani hanno vissuto il drammatico epilogo del sequestro di Giuliana Sgrena. Nel modo in cui esprimono partecipazione e dolore per la morte di Nicola Calipari.

L´uomo dei servizi segreti che ha sacrificato la sua vita per salvare quella dell´ostaggio che aveva contribuito a liberare. La lunghissima teoria di persone che attende il proprio turno, per ore, davanti al Vittoriano, per comunicare con un gesto o uno sguardo la propria pietà. Richiama le manifestazioni di solidarietà espresse, in tutto il paese, in occasione della morte dei militari di Nassiriya. E ne precisa ulteriormente il senso. Anche allora, nell´autunno del 2002, molti italiani comunicarono il loro sentimento stendendo il tricolore alla finestra o sul balcone. In buona parte accanto al drappo arcobaleno, non in alternativa ad esso. Lo spirito di pace e la solidarietà verso coloro che servono lo Stato, in tempi e in luoghi di guerra. Insieme. Senza sentirsi in contraddizione. A conferma della singolare miscela di valori e di orientamenti che anima la nostra identità. Gli italiani: osteggiano la guerra. Quella in Iraq, in particolare. Otto su dieci non la volevano, alla vigilia dell´intervento. Oltre sei su dieci continuano a considerarla sbagliata, ancora oggi. E metà non approva la nostra presenza nei luoghi di guerra.
Tuttavia, la maggior parte degli italiani ha percepito e percepisce le nostre missioni, compresa quella in Iraq, in chiave di assistenza, sostegno, solidarietà.
Gli italiani. Nel secondo dopoguerra si sono abituati a pensare se stessi come una frontiera, costretta, per ragioni geopolitiche, a mediare. Con i paesi socialisti dell´Est e con quelli arabi e medio-orientali. Ad agire come una sorta di ponte fra l´alleanza atlantica e gli altri sistemi geopolitici. Caduto il muro, la globalizzazione dell´insicurezza e dei conflitti ne ha messo in crisi il ruolo di «ponte», la pretesa di «chiamarsi fuori». Ma li ha indotti a valorizzare ancora ? più di prima ? la loro capacità di mediare, di ricostruire, di instaurare relazioni. Facendone quasi una professione, una specialità. Dovunque, dopo la guerra, arriviamo noi. In Libano come in Kosovo; e, di recente, in Afghanistan come in Iraq. Noi: la Croce Rossa, l´autoambulanza dell´occidente. Il prontosoccorso e la Caritas del dopo-guerra. Specializzati nel portare aiuto, nel promuovere la sicurezza nei territori distrutti e devastati dai bombardamenti. Un ruolo un po´ ambiguo e discutibile.
Perché, comunque, sottende la complicità con chi fa la guerra.
Un ruolo, certamente, difficile da praticare, dopo che le guerre hanno smesso di avere dei tempi e dei confini precisi.
Da quando il loro inizio coincide con la fine. Perché le guerre, in tempi di globalizzazione, cominciano quando finiscono. Anche se cambiano nome. E si chiamano, di volta in volta, terrorismo, insurrezione, normalizzazione. È difficile, allora, fare i pompieri, i barellieri, i ricostruttori di pace e di sicurezza, quando e dove la guerra non finisce mai. Quando e dove le divisioni religiose, etniche e culturali si approfondiscono. Quando e dove si afferma – si tende ad affermare – lo scontro di civiltà. Perché, allora, i muri, invisibili, si ergono dovunque, e separano gli occidentali dagli altri. Gli americani e i loro alleati da tutti gli altri. Com´è avvenuto e sta avvenendo in Iraq.
Allora è difficile e rischioso “fare” gli italiani. Non è compreso né condiviso da ampi settori della società araba e irachena, per i quali gli italiani sono occidentali, al servizio degli americani. Ma anche gli americani faticano ad accettare il modo di agire italiano. La ricerca di alleanze sul territorio. La mediazione. E, in generale, il nostro modo di affrontare la guerra “per forza”. Come fossimo, davvero, in missione di pace. Per la stessa ragione, diffidano del nostro atteggiamento di fronte al sequestro di connazionali. La ricerca del negoziato, della trattativa con i rapitori, la disponibilità a pagare un prezzo, ragionevole, pur di salvarne la vita. Prevale, negli americani, la logica della “fermezza”, dell´intransigenza. L´attacco della pattuglia Usa all´automezzo che trasportava Giuliana Sgrena, Nicola Calipari e gli altri negoziatori italiani appare, per questo, emblematico. Perché ? senza entrare nel merito delle responsabilità ? rispecchia il conflitto fra due opposti modi di concepire la missione, il rapporto con la popolazione e con le fazioni in lotta.
Gli italiani che hanno gioito per la liberazione di Giuliana Sgrena e poi pianto il sacrificio di Nicola Calipari; che ieri, a migliaia, ne hanno onorato il feretro; e oggi si apprestano ad accompagnarne, magari da lontano, le esequie.
Quegli italiani: sono gli stessi che rifiutano la guerra, condannano il conflitto iracheno e vorrebbero, magari, ritirare le nostre truppe. Ma apprezzano e sostengono, senza provare contraddizione, coloro che stanno in Iraq, o in Afghanistan. E si identificano, a maggior ragione, in figure come Nicola Calipari, che danno alle istituzioni e delle istituzioni un volto appassionato e civile. «Uno che ha lasciato il cuore per salvare una vita, senza chiedersi di chi fosse», come ha scritto ieri, suggestivamente, Filippo Ceccarelli, raccontando su “Repubblica”, questa storia, che avvicina mondi e ambienti peraltro lontani. «La redazione rossa e l´agente segreto».
Gli italiani: continuano a esibire il drappo arcobaleno e il tricolore, insieme, senza provare imbarazzo. Lo hanno fatto anche ieri, d´altronde, in fila davanti al Vittoriano. Perché vedono il tricolore (al cui ritorno pubblico molto ha contribuito il presidente Ciampi) non come un retorico simbolo di potenza, da esibire in modo sfrontato. Ma come l´emblema di un popolo capace di grandi slanci e di grandi sacrifici.
Disposto ad affrontare le guerre. Ma solo se necessario. Con prudenza e riluttanza. In nome della sicurezza e della solidarietà con la popolazione. Pronto alla mediazione e al dialogo, più che alla fermezza. Soprattutto quando è in gioco la vita umana.
In fondo, piace, a noi italiani, cantare «la guerra di Piero».
Ucciso dal nemico, perché frenato dalla propria umanità. Ma ci piace anche Nicola Calipari, ucciso dal «fuoco amico», per servire lo Stato e per salvare una vita. Vittima della sua passione e del suo senso di responsabilità.
Il che sottolinea quanto sia diventato difficile essere italiani oggi, in tempi di guerra globale. Costretti ad affrontare guerre considerate ingiuste. E a celebrare persone straordinarie, nella loro normalità. Come questo «agente segreto», che avrebbe rinunciato volentieri a diventare un «milite noto». Un eroe popolare.