Negli Stati Uniti se ne parla come di un dead man walking , un condannato che si avvia a morte sicura. In Europa, invece, come di un neonato scampato all’aborto e ora destinato a una lunga vita. Le metafore sono entrambe riferite al protocollo di Kyoto, il trattato climatico che George Bush, all’indomani della sua prima elezione ( 2001), definì « assolutamente costoso e inefficace » , tanto da ritirare l’adesione data dal suo predecessore Bill Clinton. E che l’Unione Europea indica, invece, come il miglior rimedio per curare il pianeta dagli sconvolgimenti climatici. I PERICOLI Ebbene, questo protocollo dato per spacciato innumerevoli volte, a partire dal quel 1997 in cui fu concepito a Kyoto, e ogni volta risorto, fra poche ore darà il suo primo segno di vitalità. A partire da questa sera a mezzanotte, con un contorno di festeggiamenti in varie città del mondo, entrerà ufficialmente in vigore nei Paesi che l’hanno sottoscritto: 141 finora, di cui 39 industrializzati. Con la sua rinascita prenderanno l’avvio i complessi meccanismi finalizzati alla riduzione dei 6 gas prodotti dall’uomo che surriscaldano l’atmosfera e alterano il clima, rischiando di provocare uragani e inondazioni: anidride carbonica, metano, protossido d’azoto, fluoroclorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo. Di questi gas serra, sparsi nell’aria da ciminiere e tubi di scappamento, da terreni agricoli e da allevamenti zootecnici, si cita prevalentemente l’anidride carbonica ( CO2) in quanto relativamente più abbondante; ma anche perché è invalso l’uso di esprimere tutti gli altri cinque in termini di CO2 equivalente. LO SVILUPPO AMICO « L’entrata in vigore del protocollo comporta obblighi e offre efficaci strumenti per far fronte alla riduzione dei gas — spiega Joke Waller Hunter, segretaria generale della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite — . Governi, aziende e consumatori hanno finalmente la possibilità di costruire uno sviluppo economico compatibile col clima » . Quali sono, in pratica, gli obblighi e gli strumenti operativi previsti dal protocollo? Innanzitutto i 39 Paesi industrializzati dovranno abbassare le emissioni dei gas serra entro il 2012, sotto i livelli del 1990, di quote percentuali variabili la cui media è il 5,2%. I Paesi non industrializzati sono esentati, per ora, da obblighi di riduzione, pur potendo partecipare agli altri meccanismi del protocollo. Alle riduzioni si arriva attraverso « azioni domestiche strutturali » : miglioramento dell’efficienza delle centrali elettriche e dei motori, risparmio energetico, sostituzione di idrocarburi con fonti rinnovabili, incremento delle superfici forestali che assorbono CO2. Per dare una mano a chi si trovasse in difficoltà, il protocollo offre delle alternative che, sulle prime, furono bollate dagli ecologisti come scappatoie, e che ora vengono accettate purché il sistema delle riduzioni si metta finalmente in moto. Con i clean development mechanism si realizzano opere in campo energetico e ambientale presso Paesi in via di sviluppo, ottenendo sconti sulle proprie quote di riduzione. Così i generici « aiuti allo sviluppo » possono prendere la più sicura strada della sostenibilità ambientale. Analoghi meriti si acquisiscono mettendosi in compartecipazione con altri Paesi industrializzati per realizzare progetti di comune vantaggio, come previsto dal capitolo joint implementation .
Male che vada si ricorre alla borsa delle emissioni. Entro il 2012, alla resa dei conti, chi non ha raggiunto gli obiettivi di riduzione concordati e si presenta quindi con un debito di CO2, può comprare quote di questo gas da chi è stato tanto bravo da accumulare crediti. Si apre così quella che qualcuno ha scherzosamente chiamato la « borsa dell’aria calda » . Mac’è poco da scherzare dato che oggi, all’apertura del mercato, una tonnellata di CO2 è quotata 10- 12 euro; e si prevede che già fra tre o quattro anni il valore triplicherà. Risanare il bilancio acquistando crediti costerà molto caro.
In questa specie di Monopoli della CO2, l’Italia ha perso qualche giro. Si era impegnata a ridurre del 6,5% e oggi, avendo aumentato di altrettanto le sue emissioni, si ritrova a dover tagliare di circa il 13%. « Secondo il piano nazionale per la riduzione delle emissioni approvato dal Cipe, dovremo tagliare oltre 100 milioni di tonnellate di CO2 » , specifica il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. LA SFIDA DA VINCERE In che modo? « Con l’ammodernamento del parco veicolare, eliminando entro il 2009 le auto immatricolate prima del 1996 che emettono più di 160 grammi di CO2 per chilometro; con la diffusione delle minicentrali a cogenerazione di elettricità e calore; con la produzione di energia dai rifiuti; con l’incremento di efficienza degli impianti e con l’aumento delle superfici forestali » . Non basterà: ci dovremo impegnare anche con progetti nei Paesi in via di sviluppo, in gran parte già iniziati e programmati. Altrimenti dovremo sborsare svariati milioni di euro in multe o riscatto di crediti. « La sfida è molto impegnativa, ma è possibile vincerla » , incoraggia Matteoli.
Siamo anche partiti col piede sbagliato: il piano nazionale che assegna un tetto di emissioni a ciascuno dei nostri 1.300 impianti soggetti alla normativa non è piaciuto ai severi commissari europei e ci è stato rimandato indietro. « Non potevamo scendere nei dettagli richiesti per gli impianti elettrici dato che molti di essi sono in fase di ristrutturazione e modifica — precisa il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini — . Ma entro questo mese completeremo la revisione e, con un ritardo di qualche giorno, anche noi potremo entrare nei meccanismi del protocollo » . UN FUTURO INCERTO I festeggiamenti per il via ufficiale al trattato climatico non fanno dimenticare però le preoccupazioni che gravano sul suo futuro e che sono state evidenziate all’ultimo vertice di Buenos Aires. Cosa succederà dopo il 2012 se gli Stati Uniti continueranno a restare fuori dal sistema dei vincoli e i grandi Paesi in via di sviluppo come Cina e India ci staranno dentro solo come spettatori non paganti?