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8 Febbraio 2007

Il Professore e la politica dell’elastico

Autore: Giulio Anselmi
Fonte: La Stampa

Non sempre Romano Prodi si comporta come un leader forte. Ciò accade per la composita e contraddittoria natura della coalizione che lo costringe ad arrischiati equilibrismi. E ciò accade anche a causa della sua radicata fede religiosa, che si esprime spesso, nei confronti della gerarchia cattolica, in atteggiamenti neodemocristiani.


Sul piano dell’attività di governo, condizionata dalla necessità di sopravvivere, tutto ciò si è tradotto in un ondeggiamento spesso percepito come ambiguità tanto dall’opinione pubblica che dai cosiddetti poteri forti: è un fatto, e proprio in questi giorni si è giunti al punto più acuto della crisi, che i principali interlocutori dell’esecutivo, gli Stati Uniti e la Chiesa, diffidano dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi assai più di quanto si guardassero dal suo predecessore Berlusconi, ancorché fosse per molti versi un leader assai sorprendente.


Quanto al variegato mondo dell’economia, in larga parte ben disposto verso il nuovo ministero di centrosinistra al suo esordio, ha finito col prenderne sempre più le distanze.


Il risultato, come ha confidato uno dei più stretti collaboratori del premier, è un’accresciuta instabilità, che sembra riportare alle stagioni in cui Vaticano, Dipartimento di Stato e Confindustria decidevano a tavolino il destino dei governi italiani.


Accerchiato e destabilizzato, martedì sera il presidente del Consiglio ha avuto uno scatto d’orgoglio. Non è certo il caso di evocare il Craxi di Sigonella per la ben diversa drammaticità del confronto: ma, messo davanti alla lettera di sei ambasciatori occidentali che rappresentava, nella forma e nella sostanza, un tentativo di prevaricazione e alla pretesa dei vescovi di andare ben al di là del loro diritto-dovere di magistero impicciandosi del contenuto delle leggi della Repubblica italiana, Prodi ha saputo rivendicare l’orgoglio nazionale e difendere la laicità dello Stato e il suo ruolo di rappresentanza di tutti i cittadini.


Il rifiuto di chinare la testa di fronte alla prepotenza dei due interlocutori storici dei governi italiani del dopoguerra rappresenta, per molti aspetti, un atto dovuto. L’iniziativa dei diplomatici è più che «irrituale»: è sbagliata nella forma e nella sostanza, appena attenuata dalla dichiarazione americana che non intendeva compiere alcuna interferenza.


Gli altolà del cardinale Ruini e del vescovo Betori, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente Napolitano rispettosissime nei confronti della Chiesa, rappresentano un’intromissione indebita, destinata a moltiplicare i dubbi dei cattolici democratici che pure si mobilitarono sotto le bandiere della Cei all’epoca del referendum sulla fecondazione assistita.


Resistere a un atteggiamento che, a Washington come Oltretevere, scommetteva su un indebolimento dell’esecutivo, è stato, insomma, una forma di autodifesa. Ma ora occorrerebbe che Prodi riuscisse a dare contenuto politico a un gesto che altrimenti si svuoterà presto anche della sua efficacia simbolica.


E, data l’impossibilità di un allargamento della maggioranza, sembra davvero difficile immaginare come. Quel poco di sintonia che c’era tra le due sponde dell’Atlantico dopo il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, alcune dichiarazioni del ministro D’Alema sul Medio Oriente e i tanti sottili distinguo sulla natura della nostra presenza in Afghanistan espresse dalla sinistra radicale, si è dissolto: l’hanno travolto le polemiche sull’ampliamento della base di Vicenza, i contrasti sul livello della partecipazione militare a Kabul, l’inchiesta sull’uccisione di Calipari.


È difficile negare che il nostro atteggiamento, agli occhi statunitensi, possa apparire, se non antiamericano, ambiguo. Con conseguenze imprevedibili.


Sembra meno complicato difendere dalle pretese vaticane un disegno di legge che garantisca un minimo di tutela alle coppie di fatto. La realtà sociale del Paese dovrebbe sconsigliare la conta, questa volta, anche al più bellicoso dei prelati e non a caso Rutelli, ieri, si è sganciato dai più accesi teo-dem.


Ma il fatto che il premier debba tenere assieme tutti i pezzi della coalizione di centrosinistra – impastato l’uno di antiamericanismo, l’altro autoconsegnatosi, mani e piedi, alle pretese della Cei – non induce all’ottimismo.


Il rischio, ancora una volta, è che Prodi si rassegni alla politica dell’elastico, come spesso è accaduto in materia economica, dalle pensioni alle liberalizzazioni, alternando passi avanti a ritirate, rassegnato a indulgere alla pericolosa illusione che in politica durare sia di per sé un risultato.


Non è certo una grande prospettiva. Ma, se Prodi cadesse, c’è davvero un’alternativa a nuove elezioni e a un ritorno di Berlusconi? È questo il cambiamento che serve al Paese?