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27 Luglio 2006

Il primo passo di un percorso

Autore: Franco Venturini
Fonte: il Corriere della Sera

Non erano attesi miracoli, ma qualche concreto progresso sì. Si sperava che la conferenza romana sulla crisi israelo-libanese mettesse in cantiere (non proclamandola, dal momento che erano assenti le parti belligeranti) una tregua d’armi umanitaria, come aveva invocato Prodi. Appariva possibile una migliore definizione di quella forza internazionale che ormai tutte le parti accettano, come aveva chiesto Kofi Annan. Si puntava a un chiarimento della posizione Usa, magari con l’impegno di Condoleezza Rice a premere su Israele mentre altri premevano su Siria e Iran.

A conti fatti, invece, il bilancio del vertice risulta sfumato nel tempo: l’impegno a «lavorare immediatamente» per una tregua che non viene immediatamente chiesta, quello a moltiplicare le iniziative umanitarie, l’incarico all’Onu di discutere lo spiegamento di una forza multinazionale, la determinazione comune a far applicare la risoluzione 1559 che prevede il disarmo di Hezbollah, sono altrettanti tasselli di una strategia progressiva, di un «formato» di collaborazione che D’Alema ha definito più realistico di altisonanti quanto inefficaci appelli.

Ora che sull’incontro della Farnesina è calato il sipario, dunque, occorrerà attendere per verificare i suoi veri risultati. Partendo dal successo di prestigio che l’Italia ha comunque ottenuto ospitandolo a Roma, ma partendo anche da qualche altra indicazione meno positiva.

Condoleezza Rice, che aveva in mano la chiave di una eventuale svolta, si è ben guardata dall’usarla. Nulla è cambiato nella sua attesa di una tregua urgente ma «sostenibile», che lascia qualche altro giorno a Israele (una settimana?) per indebolire militarmente Hezbollah prima di pensare alla forza multinazionale. Kofi Annan ne è parso deluso, oltre che ancora irritato (anche se sono state accettate le scuse di Olmert) per la morte dei suoi quattro caschi blu. Qualche partecipante europeo, come il francese Douste-Blazy, si è rammaricato dell’eccessiva cautela sul cessate il fuoco.

E il premier libanese Siniora è stato protagonista di un involontario paradosso diplomatico: mentre dagli altri (Rice compresa) gli piovevano addosso attestati di solidarietà, lui tuonava contro «la settima aggressione israeliana» e lamentava che il Libano venisse «fatto a pezzi». Un buon promemoria dei problemi che tutti i capi arabi, anche quelli non direttamente coinvolti, stanno avendo in casa propria.

Non si respira ancora, insomma, un clima di comunanza strategica. E può essere utile, anche per meglio comprendere quanto sia stato arduo e meritorio lo sforzo diplomatico compiuto a Roma, ricordare che sullo sfondo del conflitto Israele- Hezbollah prende sempre più corpo un confronto globale in Medio Oriente strettamente imparentato all’irrisolta tragedia irachena. Da un lato l’Iran, sciita come Hezbollah e impegnato nei suoi programmi nucleari, tenta di affermarsi come potenza regionale. Dall’altro Washington vuole non soltanto fermare Ahmadinejad e i suoi alleati (salvando, però, gli sciiti dell’Iraq), ma punta anche, con stile più multilaterale e minore fede nell’«esportazione della democrazia», a un nuovo Medio Oriente che garantisca sicurezza a Israele ed energia all’Occidente. Un asse sciita contro un asse israeliano-americano che spera nell’appoggio dei sunniti.

La conferenza di Roma ha mostrato quanto l’equazione sia fragile e complicata. Ma un primo passo è stato compiuto, e proprio l’eccezionalità dei problemi da affrontare ne sottolinea la valenza. Almeno potenziale.