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23 Febbraio 2009

Il Pd e l’arca perduta

Autore: Lucia Annunziata
Fonte: La Stampa

Nel suo quarto film Indiana Jones si trova davanti al solito ponticello
di legno sospeso su un burrone: nella prima pellicola, a vent’anni, lo
avrebbe imboccato di corsa; ora Jones è ancora piacevole e gagliardo,
ma nella sua quarta e finale avventura, si ferma sull’orlo del vuoto,
bloccato dall’ansia e dalla paura.

Senza nessuna irriverenza, lo
sguardo sull’assemblea del Pd che sabato ha eletto Dario Franceschini
portava alla mente la fatale e inarrestabile decadenza dei miti: una
selva di volti conosciuti, fedeli a se stessi negli anni, con carriere
onorevoli, lunghe e faticose, ma privi ormai di slanci, con bassa
adrenalina, preoccupati del futuro e dalla mancanza di forza. Anche gli
Indiana Jones invecchiano. E che fossero ex Dc o ex Pci o neoradicali o
vecchi liberisti, non era più rilevante.

Non era più rilevante
di fronte all’improvviso ingrigirsi dei loro lineamenti, avvenuto nel
corso di una sola settimana. Non è solo questione di numeri di anni, ma
di quel senso d’impotenza, del tempo e della fine, che con la vecchiaia
ti coglie.

Non so. Sfoglio i giornali, guardo la tv e leggo le
parole dei miei colleghi che ruotano intorno ai termini nomenklatura,
controllo, patti. Non è quello che ho visto alla nuova fiera di Roma.
In quel rituale con cui si è conclusa la crisi nata dalle dimissioni di
Veltroni c’era solo (almeno ai miei occhi) l’aggrapparsi alle poche
certezze – i regolamenti, il voto – una banale scimmiottatura delle
assemblee «decisive» di un tempo. Mi veniva da dire: «Magari qui ci
fosse una nomenklatura!». L’esistenza di una nomenklatura
significherebbe almeno l’esistenza di progetti, truppe, trattative,
signori della guerra, complotti; insomma, di segni di vitalità e di
ambizione. Ma non c’era nulla di tutto questo: le decisioni finali sono
scivolate via con la rassegnazione di chi sa di non poter fare
diversamente.

L’assemblea del Pd riunitasi a Roma, 1200
convenuti su 2800, cioè solo il 43 per cento del numero totale, era
insomma quella di una classe dirigente piegata dalle sue molteplici
sconfitte. Composta in genere da gente che ha scelto la politica come
professione, è vero: ma appesantita, più che dal proprio interesse,
dall’impossibilità di capire come questi interessi – quelli della
politica che hanno rappresentato – possano ancora essere affermati.

Non
è irrilevante capire di cosa sia fatta questa classe dirigente. Solo
gli inesperti o gli illusi possono vedere oggi in questi uomini e donne
la forza del potere. La cosiddetta nomenklatura, se la si guarda bene,
è fatta di persone che hanno varcato i sessant’anni, sono tutti ex – in
una maniera o nell’altra – di un qualche incarico o altro, e hanno già
quasi tutti preso la strada che conviene agli ex: studi, libri,
incarichi internazionali, passeggiate con i nipotini, o fondazioni.

La
verità è che le dimissioni di Veltroni sono state per tutti loro uno
shock quale nessuno avrebbe potuto anticipare nel subbuglio che ha
animato questi sedici mesi di esperienza del Pd. Tolto Veltroni, il Re
è rimasto nudo. E non perché ha portato alla luce finalmente i piani e
le malizie, ma perché, al contrario, ha esposto la mancanza di tutto
questo. Finché c’è stata battaglia interna, l’adrenalina della tenzone
ha come oscurato i contorni della realtà vera, quella esterna. Tolta la
benda, il ponticello è lì, Indiana: le sue marce tavolette sono il
crollo nel voto operaio in tutta Italia, sono il dilagare di ricette
come le ronde per la sicurezza cittadina e i milioni di disoccupati in
arrivo. Insufficienze della sinistra tanto quanto decisionismo della
destra. Fenomeni strutturali destinati a non finire, e che certo non si
possono spiegare come il risultato della «litigiosità» interna delle
correnti del partito, nonostante quello che ha detto Veltroni nel suo
addio e la fascinazione di tutti noi osservatori per le spaccature
dentro qualsiasi organizzazione politica.

Una sola osservazione
basta a confermare queste mie opinioni («sensazioni»?). Sia chi voleva
le primarie sia chi voleva evitarle sabato a Roma ha proposto la
propria linea sulla base della stessa analisi: che il Pd rischia un
tracollo finale e ravvicinato. Con la differenza che i sostenitori
delle primarie pensavano che le urne popolari avrebbero dato a un
partito avvilito almeno la chance di arrivare, alle prossime elezioni e
alla crisi occupazionale di primavera, con il sostegno della passione
di base. Mentre i secondi, quelli che poi hanno votato Franceschini
segretario, pensavano che la situazione sia così grave che gettarsi
nell’entusiasmante scelta interna di nuovi volti avrebbe privato il
partito di ogni capacità decisionale di fronte a questi stessi temuti
appuntamenti dei prossimi mesi.

La somma finale, insomma non
cambia. Al di là di quello che farà il nuovo segretario, una cosa
possiamo dire con sicurezza: che mai la consapevolezza della propria
durata terrena, in senso fisico e metafisico, è stata così presente
nelle menti (e nei cuori) del Partito democratico.