2222
13 Dicembre 2006

Il Partito democratico e tre nodi da sciogliere

Autore: Giorgio Ruffolo
Fonte: la Repubblica
Come si fa a non essere d´accordo con la drammatica invocazione di Giuliano Amato? (Repubblica, 10 dicembre).
Con la sua denuncia di una democrazia che scricchiola?
Con la previsione funesta che, se una energica svolta centripeta e democratica della sinistra non interviene, e presto, il pericolo che un qualche demagogo raccolga la rabbia antipolitica diffusa nel paese per scagliarla contro la democrazia in un qualche movimento populista, può materializzarsi da un momento all´altro?
L´immagine dello specchio rotto di Scalfari “riflette” bene questo pericolo.
Amato ritiene che la creazione di un grande partito democratico della sinistra riformista sia la risposta giusta. E che bisogna accelerarne la nascita.
Io condivido, e non da oggi, queste angosce e questa proposta. A suo tempo, ho respinto l´idea di ricostituire in qualunque forma e sotto l´ombra di qualunque fiore, un partito socialista che è stato spazzato via, prima, dal suo suicidio politico e morale e subito dopo dalla stupidità vendicativa di un antisocialismo viscerale dei comunisti e dei loro alleati.
Al suo posto ci sono oggi tanti specchietti incongrui.
Perché quel disegno si compia, occorre però – spero che Amato sia d´accordo – affrontare di petto, apertamente, le questioni nelle quali quella proposta minaccia di inciampare.
Ne vedo tre, essenzialmente.
La prima, che ho ripetutamente sollevato io stesso, è quella della collocazione del nuovo partito in quella Europa che è il nostro orizzonte politico. Resto convinto che quella collocazione non possa non essere quella della sinistra europea, che si riconosce nei partiti socialisti e nel partito socialista europeo.
Sono però sensibile alla obiezione che Amato rivolge a questa posizione, in accordo con le cose dette da Fassino. Cito le sue parole: «da una parte c´è la giusta soddisfazione per le aperture arrivate da Oporto (l´invito rivolto dai socialisti europei ai democratici italiani di unirsi a loro), dall´altra c´è la convinzione che ci vorrà tempo, che bisognerà misurare cosa si va a fare in Europa. Ai non socialisti è giusto chiedere di aderire ad un progetto condiviso anche dai socialisti, non ad un´entità pregressa che non è la loro».
Non sono così settario da non capirlo. Ma non capirei neppure, e per mia parte modestissima non potrei accettare, che si pretenda dai democratici di sinistra italiani di uscire dal partito e dal gruppo parlamentare socialista europei per imbarcarsi in qualche improbabile nuova entità anomala: un “non luogo”.
Se così stanno le cose, e se si vuole davvero superare questa impasse, non resta che una via: la parte del futuro partito democratico italiano che oggi sta nei Ds resti nel partito socialista europeo, e quella «non socialista», che oggi aderisce, ma con una sua specifica identità, al gruppo liberale, stipuli un´alleanza politica e programmatica con il gruppo socialista europeo, per la durata della prossima legislatura.
Cartesio, forse, avrebbe qualche obiezione. Ma Bacone, forse, sarebbe d´accordo.
Ci sarebbe tutto il tempo per discutere le condizioni di una reciproca e definitiva convergenza. Nessuno, pur costituendo in Italia il partito democratico, sarebbe costretto a strapparsi dalle sue radici, in Europa.
La seconda questione riguarda l´identità, più che programmatica, progettuale del nuovo partito. Prima di tutto, di partito della sinistra, non di centro sinistra: Michele Salvati, con il quale non sempre sono d´accordo, ha perfettamente ragione su questo punto.
Inoltre, non mi sembra che basti, per identificare la sua natura politica, affermare, come fa Amato, che «Partito democratico è quello che dà vita a una funzione storica in attesa». Né che ha da essere – come spesso si dice – «nuovo», «moderno», «riformista» e via divagando.
Immagino che Amato sarà d´accordo che ci si pronunci esplicitamente su alcune grandi opzioni progettuali sul piano internazionale (ordine mondiale multipolare, con lo sguardo rivolto a un futuro governo mondiale, costruzione degli Stati Uniti d´Europa come nuovo soggetto politico mondiale) su quello sociale (un nuovo compromesso storico tra capitalismo e democrazia, tra mercato e politica, nel quale democrazia e politica non siano subalterni a capitalismo e mercato); sul piano delle scelte di valore (il riconoscimento reciproco delle fedi religiose e della coscienza laica). Non c´è bisogno di un programma di centottanta pagine: ne bastano due o tre.
La terza questione riguarda il modo di costruire il nuovo partito. Se, come io credo, una ragione fondamentale della costituzione di un grande partito democratico della sinistra è quella di ridurre il divario oggi troppo ampio tra la classe politica e la società, sarebbe incongruo che la fondazione del nuovo partito fosse delegata tutta alla classe politica. Non ci si alza in piedi tirandosi per i capelli.
Propongo allora che i partiti dell´Ulivo presentino a una tornata di «primarie» quel progetto essenziale di cui parlavo prima, più una lista di candidati alla direzione del nuovo partito, suscettibile di integrazioni e cancellazioni. Bisogna evitare ad ogni costo che un evento che vuole essere storico sia ridotto alle dimensioni di una operazione “politichese” quale fu la sciagurata Cosa Due.
Un´ultima osservazione. In un partito nuovo, non semplicemente un nuovo partito, tutti devono sentirsi a proprio agio. Tutti devono essere pronti a sacrificare qualche cosa del loro passato, dicendolo apertamente, e a rivendicare la forza storica delle loro grandi tradizioni. Quella socialista, in particolare, è una grande tradizione. Non merita le battute un po´ sciocche.
L´importante non è «non morire socialista», ma vivere, il più a lungo possibile, al servizio di una causa giusta.