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14 Giugno 2006

Il Partito democratico “a freddo”

Autore: Giorgio Ruffolo
Fonte: La Repubblica

Ci sono partiti che nascono nel fuoco delle lotte sociali, a caldo. E partiti che nascono dalle ricombinazioni della classe politica, a freddo. Il Partito democratico della sinistra riformista rischia di nascere in questo secondo modo.
Che sia un’idea valida, ormai, non c’è dubbio. Da circa quindici anni i grandi partiti del centro e della sinistra sono alla ricerca di identità nuove, finora eluse con “loghi” botanici: Quercia, Margherita, Rosa… Il solo albero che ha attecchito è l’Ulivo. Ma perché diventi un partito bisogna superare seri ostacoli e realizzare importanti condizioni.

Perché sia un evento storico, e non una semplice incollatura di pezzi, il primo ostacolo da superare è la deprimente litigiosità e rivalità di troppi attori sulla scena. Più che di un partito, sembra talvolta che essi si stiano impegnando nella formazione di una direzione del nuovo partito. Intendiamoci: la rivalità è fermento organico della competizione politica: a patto però che siano riconoscibili i suoi fondamenti politici, appartenenze culturali, proposte progettuali. Altrimenti essa si riduce alla categoria squallida del “tifo”; e precipita nella chiacchiera del pollaio televisivo. Il secondo ostacolo è la chiusura della classe politica alla società. La sciagurata riforma elettorale, condannata da tutti a sinistra, è stata però avidamente sfruttata da élite politiche che ne hanno approfittato per arroccarsi in oligarchie preferenziali, come ha ben detto Mario Pirani, per nominare a tavolino deputati e senatori.

È evidente che fino a quando queste caratteristiche di conflittualità pettegola e di blindatura autocratica persisteranno sarà poco credibile parlare di un grande e nuovo partito popolare.

Veniamo alle condizioni positive da creare. L’identità, anzitutto. Non parlo del “logo”, ma del riferimento alla memoria e al progetto. La memoria: certi tifosi del Partito democratico pensano che il parlarne sia una perdita di tempo, peggio, un esercizio suscitatore di dispute divise e ritardanti. Vorrebbero rovesciare tutto e subito in un secchio, nel modo che in inglese si chiama muddling through. Stiamo attenti: le “ammucchiate” di questo tipo (unificazione socialista, Cosa due) sono clamorosamente fallite. Non si tratta di aprire seminari sulla storia della sinistra: ma, poiché il Partito democratico dovrebbe nascere da correnti storiche pesanti della sinistra italiana (comunista, socialista, cristiana, laica), di chiarire ciò che di queste eredità si intende accogliere, e ciò che non si vuole far passare attraverso il setaccio. Non c’è bisogno di seminari: ma di riconoscere nel passato le radici del futuro. Il nuovismo sprezzante è segno di una leggerezza davvero insostenibile. Fonda un partito che pretende di essere senza pregiudizi e che è soltanto sans papiers.

E veniamo al futuro, ciò che il partito sarà. Qui due tentazioni dovrebbero essere decisamente respinte. Quella, coltivata a suo tempo come felice anomalia italiana, del superamento della socialdemocrazia in un intruglio catto-comunista; che ha privato l’Italia, sola in Europa, di un grande partito socialista. E l’altra, simmetrica a questa, di rimuovere l’eredità socialista in un neoliberismo debole, che sbiadisca il riformismo in un moderatismo subalterno al “pensiero unico”. Un partito riformista deve rendere chiara la sua posizione sul problema centrale delle società capitalistiche avanzate: che è il rapporto tra l’economia di mercato e la politica democratica.

Bisogna capire se il nuovo partito si collocherà nel campo di coloro che accettano l’egemonia del mercato, ingegnandosi a ripararne qua e là i danni sociali. O se intende contribuire a definire, in Italia e in Europa, un nuovo compromesso con il nuovo capitalismo, che ristabilisca l’egemonia della politica sull’economia. Che non significa affatto un ritorno allo statalismo, ma la costruzione di una società del benessere più articolata nei suoi sistemi: quello di un mercato retto da regole che ne garantiscano la trasparenza e la concorrenza; di un governo che fornisca i servizi pubblici con una amministrazione programmatica e informatica; di un welfare che produca beni sociali attraverso la cooperazione del governo nazionale, dei governi regionali e dell’autogoverno dei cittadini organizzati in forme associative.

C’è poi il problema ineludibile della collocazione del nuovo partito tra le forze politiche europee. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Nel Parlamento europeo esistono due forze politiche fondamentali. Una è quella ex democristiana: dico ex, perché sempre più va assumendo gli orientamenti e i comportamenti di una formazione liberista economicamente e conservatrice politicamente. È quella cui appartiene il partito di Berlusconi. Non credo che ci sia qualcuno che proporrebbe questa collocazione. L’altra è quella “socialista”, che raggruppa anche forze laiche, cristiane, ambientaliste, inscritte in un ambito più vasto di quello della socialdemocrazia tradizionale. Personalmente resto, come più volte ho apertamente affermato, critico rispetto alla sua capacità attuale di promuovere un progetto riformistico concreto per l’Europa. Essa è tuttavia la sola realtà che può aprirsi, in un’alleanza con le minoranze liberali e ambientaliste, alla formazione di una nuova forza riformista animatrice di una sinistra schiettamente europea. La pretesa del Partito democratico di rappresentare già da ora quella forza più ampia, costituendosi nel Parlamento europeo in un isolamento non splendido, e magari invitando gli altri a aderire, mi parrebbe ridicola e presuntuosa. Penso che il nuovo partito dovrebbe essere un fattore attivo di trasformazione e non di divisione della sinistra riformista europea. E che in tal senso debba interpretare la sua adesione al gruppo socialista del Parlamento europeo.

C’è infine il problema dei modi della costruzione del nuovo partito. Su questo punto decisivo Fassino ha avanzato una proposta che a me sembra fondamentale in senso proprio: l’elezione dei dirigenti con il metodo delle primarie. Se su questa proposta prevalesse la resistenza di apparati e di candidati precostituiti dall’establishment, il nuovo partito nascerebbe non come una forma, ma come una formula politica. Piuttosto che prenotare i posti, bisogna estendere il metodo delle primarie dalla sola nomina dei dirigenti alle grandi opzioni politiche, ponendole in pubblica discussione al di fuori dei recinti dei partiti e sottoponendole alla votazione di assemblee costituenti.

Stati generali, li chiamammo una volta, quando ci illudevamo su una trasfigurazione dei Democratici di sinistra in una vera sinistra democratica e socialista. Ma lasciamo perdere i nomi e badiamo alle cose. Attraverso una definizione chiara della sua identità (chi sarà), della sua collocazione (dove starà), della sua formazione (come nascerà) il nuovo Partito democratico sarà un partito nuovo.