GLI scontri di Napoli testimoniano che il miracolo non è ancora avvenuto, e che
la realtà è refrattaria a conformarsi al clima saccarinoso seguito
all’insediamento del governo Berlusconi e al primo Consiglio dei ministri sotto
il Vesuvio. Con un normale esercizio critico, si può ragionevolmente sostenere
che la tonalità generale dell’Italia contemporanea non è certo rappresentata
dagli spettrali raid contro i campi nomadi di Ponticelli.
Né dalle aggressioni a sfondo più o meno xenofobo, dall’insurrezione
antimigratoria. Ma neppure è rappresentata dal clima della luna di miele con il
nuovo esecutivo e con il nuovo Berlusconi, lo “statista”.
Negli ultimi giorni si è assistito a un fenomeno non sorprendente ma comunque
straordinario di conformismo verso il nuovo potere. In certi momenti, come
all’ultima assemblea generale della Confindustria, è sembrato addirittura che
l’attuazione del programma del centrodestra fosse soltanto una formalità, e che
Silvio Berlusconi e i suoi ministri meritassero un consenso corale, nel nome
delle centrali nucleari, della guerra ai fannulloni e della crescita.
Ma questa non è la realtà. Questa è una rappresentazione ideologica, forse un
miraggio suscitato dalle aspettative di quell’opinione pubblica che ha
assaporato il dolce calice della vittoria del Pdl e della Lega, e ora comincia
a osservare con romanticismo i primi risultati del nuovo governo. È vero che
nelle settimane dopo il 13-14 aprile sono stati sparsi interi turiboli di
incenso per celebrare la liturgia del grande ritorno.
Ma questa cerimonia andrebbe catalogata sotto l’ineffabile amore di buona parte
delle élite italiane per qualsiasi potere, purché forte e spregiudicato:
quell’amore che induce i membri dell’establishment a clamorose virate
intellettuali (vedi quella del passaggio dal dogma delle privatizzazioni, delle
liberalizzazioni e delle “agende Giavazzi” al neoprotezionismo, e
alla globalizzazione “regolata”, simboleggiate probabilmente dalla
candidatura del capo dei tassisti romani e dalla cordata nazionalista per
l’Alitalia).
Va da sé che non tutti gli uomini politici e le figure di potere possiedono
l’autostima che fa dire a Massimo D’Alema, a proposito del ministro
dell’economia Giulio Tremonti: “È un pensatore neoconservatore, peraltro
modesto”. Ma perlomeno sarebbe utile se nel Pd emergesse qualche giudizio
critico, e criticamente motivato, sulle prime mosse del governo.
Perché non è affatto detto che il tema supremo delle riforme istituzionali sia
un totem a cui sacrificare anche una dettagliata linea di giudizio. Fra
l’altro, non è chiarissimo con quali idee, al di là del reperto della
“bozza Violante”, il Pd affronti la discussione del rifacimento
costituzionale: e non è detto che l’elettorato del centrosinistra condivida
integralmente i pilastri del riformismo veltroniano (un ventaglio che sembra
prevedere forme di presidenzialismo e si spinge verso configurazioni di
federalismo fiscale): tanto per dire, può essere che settori non insignificanti
apprezzino invece modalità di governo neoparlamentare, sebbene finora nessuno
ne abbia discusso apertamente.
Inoltre, sarà superfluo sottolineare le possibili trappole dell’iter di riforma
istituzionale: che prevedono la possibilità di essere ricacciati nel ghetto
riservato all’opposizione disfattista e sabotatrice, nel caso disgraziato che
le riforme della maggioranza non piacciano alla minoranza ovvero che un accordo
non si trovi. E sarà inutile anche segnalare che l’accusa di disfattismo
arriverà puntualmente non appena si passerà a iniziative di governo più
consistenti, dopo i “primi passi”, le “prime mosse”, i
segnali mandati, le misure sperimentali (come per l’appunto i discutibilissimi
e poco discussi provvedimenti sull’Ici e sulla parziale nonché bizzarramente
selettiva detassazione degli straordinari).
In sostanza, la scena politica appare amorfa perché un’ondata di consenso
aprioristico, in genere non condizionato dalla verifica dei risultati attesi,
si è riversata sul centrodestra. Un consenso “a prescindere”, come se
la società italiana, dopo essersi faticosamente misurata con il berlusconismo
per quindici anni, di fronte al Berlusconi statista, al politico
improvvisamente consapevole delle difficoltà e moderato negli intenti, avesse
deciso che non aspettava altro, che quella destra era la coperta migliore per
il paese, tale da aderire confortevolmente a tutte le sue pieghe: una specie di
andreottismo screziato di prudente decisionismo, una Dc senza i preti, ma che
comprende l’interclassismo a cui allude Maurizio Sacconi, in cui si sentono
echi di Mitbestimmung tedesca, con i sindacati nei consigli d’amministrazione e
la fine di qualsiasi conflitto redistributivo: Pax vobiscum, nel senso di una
pace sociale garantita da un potere politico senza alternative.
Rispondere a questo pacchetto ideologico è difficile, perché in realtà il
cosiddetto interclassismo prospetta un’economia corporata, che integra
organicamente gli interessi di categoria, a cui chiede voti offrendo
protezione, cioè riducendo la concorrenza e tutelando le rendite di posizione.
Di per sé, si tratta di una notevole antitesi al profilo di una società
liberale. Ma anche senza ipotecare un giudizio filosoficamente negativo, anche
sfuggendo ai pregiudizi e valutando soltanto i fatti, ci vorrebbe comunque da
sinistra un buon esorcista, per dissolvere la magia del consenso a tutti i
costi e del conformismo generale.
Perché con ogni probabilità ci sarà da condurre una battaglia impopolare contro
l’idea irresistibile che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e in cui
l’unico atteggiamento civile è l’applauso. Per questa battaglia, il governo
ombra va bene, un’opposizione costruttiva va benissimo, ma una cultura, un
progetto condiviso, cioè un’ipotesi di società desiderabile alternativa a
quella di Berlusconi e soci, andrebbe anche meglio.