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21 Settembre 2005

Il mite Wiesenthal vittima senza odio e senza perdono

Autore: Elena Loewenthal
Fonte: La Stampa

Quando si è bambini gli adulti sembrano tutti troppo grandi: ti ingombrano il cielo. Chissà perché, lui invece me lo ricordo stranamente minuto, sotto gli occhi gentili e i baffetti appena accennati. Era il 22 maggio del 1964, Simon Wiesenthal si trovava a Torino per un conferenza al Circolo della Stampa ed era ospite a casa nostra, per l’occasione assediata da una vistosa presenza delle forze dell’ordine, che lo scortavano ovunque: cacciatore sì, ma anche e costantemente braccato.


Il giorno dopo partì per Milano dentro un corteo di sirene spiegate, lasciandomi la certezza un po’ frastornata che quel signore era sul serio una persona importante. Le miti misure che la mia memoria ha trattenuto vanno contro ogni evidenza: uscito da Mauthausen pesava appena 44 chili, eppure «è un bel pezzo d’uomo, alto un metro e ottantacinque, ora cinquantenne», scrive La Stampa di quel giorno in un pezzo siglato «c. c.», in cui forse non è azzardato intravedere la firma di Carlo Casalegno.

Che insieme ad Angelo del Boca quella sera presentò Wiesenthal al pubblico torinese nella conferenza stampa, sotto la cornice di una domanda forte: «Come e perché ricerchiamo i criminali nazisti».


Chissà quante volte egli stesso si è posto questa domanda. La storia, con la sua buona abitudine di adagiarsi sopra numeri e statistiche, risponde per conto suo: almeno mille e cento. Perché tanti sono i criminali nazisti che lui ha trovato. Ad ascoltare invece il suo «viso cordiale» (come lo descrive l’inviato Giampaolo Pansa sul Il Giorno del 23 maggio nella cronaca della conferenza stampa), quella domanda Wiesenthal dev’essersela posta una volta soltanto nella vita. Ma quella volta bastò.


«Era il giugno del 1942, a Leopoli, in circostanze insolite, una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace, mi disse, dopo avere ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare». Wiesenthal sapeva, o forse soprattutto sentiva, che in quanto ebreo quel perdono non avrebbe potuto concederglielo.

Perché nell’etica d’Israele il perdono è parte integrante del senso di responsabilità e lo può concedere solo chi è stato direttamente offeso. Nessuno, pertanto, potrà mai perdonare un assassino per conto di un morto. Meno che mai se i morti sono sei milioni di voci che non rispondono all’appello.


Non volendo né potendo perdonare, Wiesenthal ha scelto la via della giustizia, come scrive in filigrana lungo tutto «Il Girasole» (pubblicato in italiano da Garzanti, al pari degli altri suoi libri: testimonianze, saggi e persino un romanzo, intitolato «Max e Helen»). Non è giusto chiamarlo «cacciatore di nazisti»: lui i nazisti li ha cercati e, per più di mille e cento volte, li ha trovati.

Con loro, insieme ai falsi nomi sotto i quali vivevano, dentro quelle nuove vite non necessariamente clandestine e spesso costruite su una agiatezza e una stabilità che puzzavano di morte, Wiesenthal trovava l’ingiustizia. Di quella, e non dei criminali nazisti, andava a caccia.


Perché lui era davvero la coscienza della Shoah: non l’impeto della vendetta, né l’impulso feroce di una rabbia dettata dall’orrore vissuto in prima persona, come era capitato a lui e a sua moglie, passati per i campi di sterminio. «Una caratteristica sorprendente in Simon Wiesenthal – scrive ancora La Stampa di quel giorno – fin dalle prime battute di un colloquio: l’eccezionale serenità dell’uomo, la lucida passione morale del suo discorso.

Non è un vendicatore: è un uomo che ricerca la verità e la giustizia, perché gli ignari sappiano che cosa è stato l’orrore nazista, gli immemori ricordino e la coscienza internazionale rifiuti – a vantaggio di ogni popolo, non solo del popolo ebraico – il veleno del razzismo».


Anni dopo di allora il Simon Wiesenthal Center di Los Angeles si chiama «Museum of Tolerance» e nei suoi percorsi didattici multimediali aiuta il visitatore a districarsi fra i cocci dei diritti civili in Bosnia, in Ruanda, dentro le lotte combattute negli Stati Uniti.


Da Adolf Eichmann a quel gregario SS già fornito di tomba eppure beatamente in villeggiatura in Costa Brava con un nome fittizio sul passaporto: ne ha trovati tanti. Pochi, al confronto con la macchina dello sterminio, che era un dispositivo di massa per annientare masse.

Wiesenthal non era un cacciatore: era piuttosto un lavoratore instancabile e metodico, dotato di tenacia e di pazienza. Di una convinzione armata soltanto del dolore patito e di desidero di giustizia. Non di vendetta. E se molti lo guardavano con una diffidenza nutrita dal sospetto, pronti a immaginarlo come un losco agente segreto, lui ha sempre agito con doppia trasparenza.


Le sue conferenze stampa erano una tattica formidabile: quanti criminali nazisti nascosti sono usciti allo scoperto, magari suicidandosi, dopo una sua denuncia pubblica. Questa era l’arma della divulgazione, dello smascheramento ad alta voce ed occhi aperti.

L’altra fu la sua costante fiducia nella giustizia: una volta trovato quello che cercava, lo affidava e si affidava alle mani della legalità, che non ha mai nemmeno provato a scavalcare, foss’anche stato in nome della propria giustizia.


Anche per questo, oltre che per la sua intelligenza e una lucidità conservata fino alla fine, Simon Wiesenthal era grande. Di quella grandezza, però, che da bambina me lo aveva fatto sentire a misura dei miei occhi, malgrado l’agitazione che regnava in casa quel giorno e la polizia tutt’intorno all’isolato. L’ho sentito al telefono non tanto tempo fa, la voce ferma come sempre.


A giorni sarebbe arrivato il suo lieve cartoncino d’auguri per il Capodanno ebraico, come al solito. Invece del biglietto stampato con la stella di Davide in centro, per quest’anno mi resterà il suo sorriso mite mandato di lassù: dalla terra d’Israele dove, insieme alla moglie spirata due anni fa, lui tornerà fra qualche giorno e per sempre. Buon riposo, Reb Wiesenthal: te lo meriti.