“Meritocrazia”
è la parola magica che pare ai più capaci di liberare la società
italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero
riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del
nepotismo e del clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro
di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per
valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto.
Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o
un´organizzazione dell´azione collettiva basato “sull´abilità
dimostrata” e sul “talento” piuttosto che su “ricchezza ereditata,
relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe,
proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione
sociale”. John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia
resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito,
prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il
dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta
sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona
riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata
disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare
emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza
sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente
dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra
chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall´operato.
Il
giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di
lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione,
all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico,
ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non
soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella
che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner
sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre
diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse. Non
perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un
bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto
con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il
principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale
semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere
privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella
quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di
formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti
sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il
Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia
per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di
giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che
partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle
caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare
del merito del vincitore? Evidentemente no. Perché ci sia una gara
effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro
competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni
sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può
onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi
dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i
concorrenti si apprestano a competere.
Parlare di merito senza
intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni
individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra
società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento
del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su
questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di
classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a
una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un
lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio
cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza
o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in
questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano
in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che
l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al
salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per
merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti
si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in
maniera più o meno diretta. Nell´età premoderna si pensava che il modo
migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per
togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato
proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce
togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una
terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una
giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere.
E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare
l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la
politica dei “meno soldi” non si traduce necessariamente in “più
onestà”. Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che
siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con
anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento
efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla
celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non
è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una
questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di
valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa
funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del
merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per
esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi
sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di
quella del merito e dell´onestà. Non è questa la ragione per la quale è
così difficile che un esterno vinca una competizione nell´accademia
italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali
opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per
sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci
e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia
scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e
amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante,
eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università
private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui
si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare
tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per
sconfiggere il furto?