29 Agosto 2004
Il martire di Baghdad
Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa
FA bene Sergio Romano a osare la parola martire, a proposito dell’assassinio di Enzo Baldoni. Ogni martire è testimone, e questa era l’idea che Baldoni si faceva del proprio mestiere: non opinionista e neppure corrispondente, ma semplice reporter che coglie l’attimo e lo narra nella sua nudità. Nei suoi blog, su Internet, si definiva un turista di guerra e faceva perfino l’elogio dell’ignoranza: «A volte l’ignoranza è un vantaggio. O hai approfondito per anni un Paese, o ci vai tabula rasa. Arrivi senza preconcetti e, per sbaglio, ti capita di vedere quello che altri non vedono. Lo sguardo di Candide…». Il Candide di Voltaire scopre nel suo girovagare che il mondo non si dirige nella migliore delle direzioni possibili, che è fatto di rumore e di sangue, che l’irrazionale ha un suo granitico potere di seduzione, che non è vero quel che dicono i falsi ottimisti, per cui le prove del male non contano: che il razionale coincide ineluttabilmente con il reale, che il mondo e la politica o sono razionali, o non sono reali. «Mi piace l’idea di viaggiare per sbaglio», scriveva Baldoni su Bloghdad (
http://bloghdad.splinder.com) e cercava di imparare divertendosi: «Adesso sta a me far vedere che non sono un quaquaraquà europeo». Il 7 agosto raccontava i tre modi di recarsi a Baghdad: il modo dei «giornalisti stagionati e annoiati»; degli «iracheni di ritorno, mesti e preoccupati»; e infine dei «ragazzoni muscolosi, di poche parole ma di molto fisico». Quanto a lui, tutto sembrava essere tranne un ideologo. Era pacifista probabilmente, ma un’opinione netta si rifiutava di esprimerla. Come esergo del blog aveva messo un brano dell’Americano Tranquillo di Graham Greene: «Ho scritto quel che vedevo, non ho scelto l’azione – perfino un’opinione è un genere di azione».
Della guerra irachena lui ha descritto l’assurdo, l’assurdo era il suo elemento più che il pacifismo, e nell’assurdo è capitato nell’ora della morte, poco importa l’esatto momento in cui è avvenuta. L’assurdo può far germogliare in noi quel particolare e sempre lieve e sapiente ottimismo, cui ha fatto accenno venerdì alla televisione la sposa del reporter, Giusy Bonsignore: singolare figura lucente, reincarnazione di Andromaca gettata in una tragedia che di certo non è più grande di lei.
Prima ancora di essere ucciso, Baldoni sembrava conscio della verità frastornante cui giunge Macbeth: che la vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore, che s’agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e poi scompare nel silenzio. Nell’ora della strage è proprio questo che il reporter ha incontrato: un sequestratore che ce l’aveva a morte con l’Occidente, ma col quale era del tutto inutile comunicare, esercitarsi in dialettica. Quel che ha ottenuto è uno scontro fra due racconti eguali ma inconciliabili, giacché per ambedue – sequestrato e sequestratore – il discorso fatto dall’altro dev’essere apparso, come in Shakespeare, «un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e rumore, senza alcun significato».
Difficile accaparrarselo, Baldoni: costruirci sopra una filosofia. Non è la prova che i pacifisti hanno torto, nel denunciare la guerra e nel ricordare che comunque esiste, accanto agli assassini, una resistenza all’occupazione. Non è la prova che il tipo di guerra antiterrorista, fatta oggi a Baghdad, sia razionale per il solo fatto di esser reale, e reale per il solo fatto di pretendersi razionale. In uno dei rari accenni alla politica Usa (è il 12 agosto, i marines assaltano Najaf) Baldoni-Candide tocca con mano quel che tanti non vogliono vedere né toccare: «Non so se questa bella impresa porterà molta fortuna agli americani. Si sono guadagnati per sempre l’odio degli iracheni, sunniti e sciiti». Ma non è solo Bush, a guadagnarsi un odio che colpisce indiscriminatamente gli occidentali.
Anche chi si è tenuto fuori dalla guerra, come la Francia di Chirac, è ormai preso di mira: ieri sera, gli stessi terroristi che hanno ucciso Baldoni hanno mostrato i due giornalisti francesi sequestrati nei giorni scorsi, chiedendo l’abbandono, entro 48 ore, della legge che vieta il velo musulmano nelle scuole pubbliche. Per gli strateghi della deterrenza nucleare, questo è stato, da sempre, l’anello debole della strategia militare dell’Occidente: l’eventuale apparizione di un avversario con il quale non sarebbe stato possibile parlare
razionalmente, e nei confronti del quale la logica della deterrenza (tu mi puoi uccidere, ma al tempo stesso ucciderai te stesso) non avrebbe funzionato. L’irruzione sul palcoscenico politico e bellico dell’irrazionale, della follia, dell’odio che non sa dar ordine a se stesso e sfocia in caos. L’impotenza del lògos, della parola detta per argomentare, per convincere, infine per dissuadere. Il lògos ha funzionato con il comunismo sovietico, nella Guerra fredda, ma ha funzionato anche in seguito, contrariamente a quel che dissero nel 2002-2003 Bush, Blair, Aznar, Berlusconi: ha funzionato anche con Saddam, visto che il suo regime era stato messo nelle condizioni di non possedere più armi di distruzione di massa, minacciose per Medio Oriente e Occidente. La totale impotenza del lògos e il susseguente fallimento della dissuasione s’instaurano in Iraq dopo l’intervento occidentale, e su questo vale la pena meditare, con lo stesso sguardo candido, non ideologico, che ebbe Baldoni: non necessariamente per ritirare le truppe dall’Iraq, ma per sapere almeno la guerra che si combatte, per cercare maniere meno inefficaci di parlare all’avversario. Quel che Bush temeva, quando nella sua dottrina sulle guerre preventive descriveva la forza assunta dal terrorismo nei failed states – negli stati mancati -, è adesso che diventa realtà. È adesso e non ai tempi di Saddam che l’Iraq s’è trasformato in failed state: quindi in base, temibile per tutti, del terrorismo nazional-islamista e/o globale. Herman Kahn, che negli Anni Sessanta si soffermò per primo sulla possibile apparizione dell’irrazionale negli equilibri della Guerra fredda, invitò a Pensare l’impensabile, in un libro dallo stesso titolo. Un libro che Kubrick lesse attentamente, quando descrisse la guerra scoppiata per folle inavvertenza, nel Dottor Stranamore: c’è un punto, quando ormai la macchina atomica è scattata, in cui gli avversari si rivolgono la parola, senza ormai più costrutto. Non fanno discorsi nichilisti
complessi: balbettano come infanti. Così il terrorista che prende ostaggi in Iraq, e che al momento pare non dissuadibile con discorsi: non è un nichilista, non si presenta con un discorso complesso anche se contraddittorio sulla vita, la morte, il superuomo, la morte o l’esistenza di Dio. Chiamarlo nichilista è, in fondo, imbellirlo. Il terrorista che uccide il pacifista Baldoni non esalta la violenza ma adopera un linguaggio balbettante, inane. Il linguaggio della prima infanzia, quando il lògos non ha ancora radici. Il linguaggio della pre-
politica, della pre-guerra, della pre-dialettica, della pre-religione.
Il linguaggio di chi trasforma ormai in farsa la terribile frase necrofila che il generale franchista Millan Astray sbatté in faccia a Miguel de Unamuno, all’Università di Salamanca nella guerra civile spagnola: «Viva la muerte! Abajo la intelectualidad!». Oggi come allora non abbiamo, per difenderci, altro che la razionalità ironica di Unamuno: «Vincerete forse ma non convincerete – così replicò – perché convincere vuol dire persuadere, e per persuadere occorrono la ragione e il diritto nella lotta». Separare le eventuali ragioni dei resistenti iracheni dalla politica dell’irrazionalità che caratterizza il terrorismo, scommettere tutto sulla difficoltà che quest’ultimo incontrerà nel persuadere le masse arabe: questo il compito che hanno davanti gli occidentali in Iraq. Ingaggiare invece contro l’irrazionalità un’interminabile guerra guerreggiata, vedere nel terrorismo islamico una riedizione dei totalitarismi novecenteschi e dei nichilismi ottocenteschi, scambiare i resistenti per terroristi e i terroristi per resistenti, significa dare una straordinaria forza ai racconti pieni di biascicante furore e rumore che i sequestratori fanno a se stessi. Significa vedere nel loro agire una capacità non solo di vincere brutalmente, ma di convincere. Significa nobilitare il crimine comune, con parole prestate dalla religione o dalla filosofia o dalla scienza politica, e regalare al criminale lo statuto cui anela di più: lo statuto di combattente, di belligerante, di razionale nemico dell’Occidente, degno di grandi eserciti spiegati e non di volgari polizie anti-crimine o anti-mafia. Partiti per garantire all´Iraq pace e democrazia, per “normalizzare” l´Iraq, ci stiamo irachenizzando noi. Che ci scopriamo ogni giorno più divisi, cinici e indifferenti. Incapaci di etica e di estetica. E insopportabilmente feroci.