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27 Giugno 2010

Il futuro ha bisogno di alternative

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

D’un tratto, come se la crisi economica cominciata nel 2007 non fosse passata
da queste parti, è riapparsa nei vocabolari un’espressione molto usata
negli Anni 80: «Non c’è alternativa». L’acronimo inglese, Tina (There is
no alternative), caratterizzò i governi di Margaret Thatcher, e la fiducia
che a quei tempi si nutriva nelle virtù indiscutibilmente razionali delle
forze di mercato. Queste ultime non andavano regolate: si regolavano da
sole, a condizione di esser lasciate senza briglie. Il dogma del
mercato mise a tacere dissensi e recriminazioni spesso
irragionevoli, ma finì col congelare il pensiero e le sue risorse
multiformi. Il fallimento del comunismo accentuò questi vizi di
immobilità, perché ogni idea diversa era considerata a questo punto
una messa in questione radicale dell’economia di mercato. La stessa
parola alternativa era in anticipo screditata, proscritta. Chi aveva
l’ardire di pensare o immaginare alternative era accusato di
avvelenare e addirittura sovvertire il grande idolo dei fondamentalisti
che era il tempo presente.

La fiducia nel dogma ha trovato nel
2007 la pietra su cui è inciampata, e cadendo ha trascinato con sé
le sicurezze che credeva di possedere, compresa la sicurezza che le
forze di mercato non avessero mai bisogno di briglie politiche. Quel
che è mancato e che manca, tuttavia, è un ricominciamento del
pensare: troppo a lungo congelata, la mente avanza ancora a tastoni e nel
buio acchiappa con le mani le parole che trova, senza sapere se appartengano
al mondo nuovo o al vecchio.

Tra queste parole c’è l’acronimo
della Thatcher, riutilizzato da governi, imprenditori ed economisti
nelle più svariate occasioni: nel caso di Pomigliano, come nelle
discussioni sui piani di rigore che i Paesi industriali si
apprestano a varare. Non vengono riutilizzate senza ragione, perché
non poche misure e decisioni sono obbligate, difficilmente confutabili:
è vero, ad esempio, che in un’economia internazionalizzata si possono
produrre automobili solo in fabbriche dove i costi di lavoro siano abbastanza
bassi e la produttività abbastanza alta da poter competere con le produzioni
in Europa orientale o Asia. Da questo punto di vista non c’è alternativa,
in effetti. Se si vogliono fabbricare automobili in Italia o in Francia
o in Germania, bisogna per forza adottare nuove condizioni di lavoro:
grosso modo, quelle indicate dal piano Marchionne.

Essendo un
momento di verità, la crisi consiglia tuttavia prudenza, quando si
esprimono certezze razionali così granitiche, impermeabili alle controversie
e alle alternative. Soprattutto, essa insegna ad aguzzare lo sguardo,
e anche ad allungarlo e differenziarlo. Una cosa che è senza alternativa
nel breve termine, può rivelarsi del tutto sterile e più che bisognosa
di alternative se esaminata con lo sguardo, molto più lungo, delle generazioni
che verranno e di quelli che saranno i loro bisogni, le loro domande,
i loro stili di vita. Una produzione che sembra oggi
vitale e prioritaria può essere, nel lungo termine, non così
centrale come lo è stato fino a oggi.

È
questo il momento in cui il dogma del mercato tende a divenire l’ortodossia
del tempo presente, dell’hic et nunc. L’automobile è un prodotto
essenziale della nostra esistenza, oggi.
Ma non è detto che lo sarà sempre allo stesso modo, che i modi di
vita e le abitudini degli uomini non subiranno metamorfosi anche
profonde. Il clima che si degrada rapidamente, il costo del
petrolio, la scarsità delle risorse: tutti questi elementi non garantiscono
all’automobile il posto cruciale che ha avuto per gran parte del
’900, e non saranno gli aumenti della produttività e le più severe condizioni
di lavoro in fabbrica a migliorarne le sorti. Un’auto resta un’auto,
anche se consumerà meno energia, e sulla terra ce ne sono troppe. Nell’immediato
non c’è alternativa a costruire auto in un certo modo a Pomigliano.
Nel medio-lungo periodo l’enorme numero di veicoli programmati non
troverà forse acquirenti.

Gli studiosi dibattono la questione da
anni. Lo stesso Sergio Marchionne ha più volte fatto capire, in
passato, che la domanda di automobili sta declinando in maniera
strutturale, indipendentemente dalle crisi congiunturali. Già si
studiano possibili riconversioni, alternative, che vanno ben al di
là delle automobili a basso consumo. I piani alternativi non mancano
e tutti raccomandano di investire nei trasporti comuni più che nell’auto
individuale, nelle rotaie più che in ragnatele sempre più invasive di
strade asfaltate, nei motori destinati a produrre energie alternative
più che in motori che dilapidano risorse in diminuzione al servizio
del singolo individuo. «I trasporti pubblici e le energie
rinnovabili saranno il fulcro industriale della prossima generazione
nell’economia globale», afferma Robert Pollin, economista
all’università del Massachusetts. Secondo alcuni autori (James
Kunstler è il più pessimista, nel suo libro intitolato The Long
Emergency) il declino dell’auto diverrà visibile quando non sarà più conveniente
costruire, in epoca di petrolio raro e caro, le città satelliti lontane
dai centri-città e dai luoghi di lavoro (i suburbia).

Il modo di
vita e di convivenza dei terrestri è in mutazione: a causa del clima,
del diradarsi di risorse del pianeta, di catastrofi come quella nel Golfo
del Messico. Muteranno bisogni, aspirazioni, influenzando sempre più i mercati.
È una prospettiva alla quale conviene pensare, fin d’ora, cominciando
a costruire le fabbriche e i lavori che saranno necessari nel mondo
futuro. Anche mondo futuro è un concetto in metamorfosi costante: non è
qualcosa che ideologicamente viene sovrapposto alla realtà,
sostituendola alla maniera di un villaggio Potemkin che prima
inganna e poi delude. È una realtà che molto semplicemente
succederà, e sulla quale tuttavia potremo incidere con una condotta o
con l’altra. L’unico vero problema è che le forze che saranno
protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in
maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria
voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati
e nei partiti di sinistra, il più delle volte sordi alle esigenze di
chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua,
di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi
stili di vita e di consumi. Ma c’è arretratezza anche nel mondo degli imprenditori,
dove a dominare sono spesso forze gelose del posto occupato dalle
produzioni classiche: forze timorose del futuro, e delle conversioni mentali
e produttive che il futuro comporta.

Vale la pena dunque pensare
le alternative, e abbandonare le parole-mantra di Margaret
Thatcher. E vale la pena pensare il mondo contraddittoriamente, tenendo
sempre presenti i due sentieri che abbiamo davanti. Il sentiero del qui
e ora, con i suoi stati di necessità non eludibili. E il sentiero del domani e dopodomani, con i
suoi non meno eludibili vincoli energetici e climatici. Può darsi
che nell’immediato sia corretto ricordare che non esistono
alternative. Ma di alternative c’è un enorme bisogno per il futuro, ed
è un bene che vengano pensate, vagliate, scartate, non domani ma già oggi.