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7 Marzo 2007

Il doppio fondo di Kandahar un mix di candore e crimine

Autore: Guido Rampoldi
Fonte: La Repubblica

Si direbbe che a Kandahar tutto abbia un doppiofondo, una botola segreta, un’intercarpedine in cui è possibile cadere così come scoprire verità sorprendenti. Chi vi arriva dalla pachistana Quetta la trova in fondo ad un deserto di terra piatta e gialla da cui emergono come capodogli grandi gobbe di roccia nera. L’ultimo villaggio prima delle case si chiamava Gunigan, finché l’aviazione sovietica lo ridusse ad un dosso ocra. Ne restano i suoi campi coltivati. 

Ogni volta che sono passato di lì in primavera, il papavero da oppio segnava strisce di verde-cupo tra le strisce di verde più blando. Un pomeriggio tre contadini soavi m’insegnarono a incidere le grosse teste ovali dei papaveri con la lametta da barba fissata su un manico di legno, lo strumento chiamato nish. La secrezione rosa che sgorgava dalle cinque incisioni longitudinali, mi spiegarono pazientemente, si sarebbe rappresa durante la notte in una melassa scura; l’avrebbero raccolta all’alba, prima che il sole la solidificasse. I contadini mi dissero senza alcun imbarazzo i loro nomi e il motivo per il quale erano diventati produttori d’una sostanza che, di questo erano perfettamente consapevoli, in Europa avrebbe ucciso e rovinato esistenze. Ma il grano, spiegavano con la semplicità di chi discorra di normali attività produttive, rende molto meno del papavero, comunque non abbastanza per pagare, per esempio, la clinica a Quetta se i loro bambini si fossero ammalati. 

Questo miscuglio di candore e di crimine, questa casualità che produce un Male senza malvagità o un Bene senza bontà, m’è sempre sembrato il segno distintivo d’una delle città più sconcertanti del pianeta. Laggiù ho visto sorgere e tramontare l’era dei Taliban. La prima volta che vi capitai fu nel 1996; l’ultima nel dicembre 2001, pochi giorni dopo la caduta dell’emirato. La città si presenta, credo tuttora, con un dedalo di case basse, in fango rappreso. La guerra dei trent’anni, cominciata in Afghanistan con l’invasione sovietica e da allora mai più terminata, ha artigliato con violenza i viali della periferia, molti dei quali mostrano ancora sull’asfalto i segni lasciati da cingoli e da granate. Le palazzine signorili che vi affacciavano sono rovine ormai quasi squagliate dalle intemperie, e sagomate con la linea morbida dei castelli di sabbia dopo un’onda. Più avanti la città si rianima, ma anche dove c’è un traffico di auto e motorette irrompe una Kandahar antica e primordiale, con le sue greggi al pascolo, i carretti, capre solitarie e asinelli più piccoli di com’è possibile immaginarli. Le donne sono stoffe semoventi, i burqa; la maggioranza degli uomini ha il turbante: l’uniforme tradizionale del Pashtunistan, la terra dei pashtun. 

Nel 1996 all’ingresso di Kandahar c’era un portale simbolico: due tralicci da cui pendevano tutti i televisori della città. Appesi per il filo elettrico. Tristi come impiccati. Pendevano in grappoli, e tra i grappoli frusciavano striscioline nere, controsole simili a grossi ciuffi d’alghe. Nastri di musicassette, anche quelle proibite, mi spiegò un ragazzino mutilato da una mina. Il ragazzino aveva un kalashnikov a tracolla perché era una sentinella dei Taliban: faceva la guardia all’edificio all’epoca più temuto in città, la casermetta del “Comando per il buon comportamento e la prevenzione del vizio”. Quel giorno ospitava una ventina di mullah, quasi tutti storpiati o sciancati dalla guerra contro i russi. Ciascuno di loro non solo poteva recitare a memoria i 141 capitoli del Corano, ma anche tradurli dall’arabo, sia pure a modo suo. La loro fedeltà alla lettera del Libro determinava un codice rigidissimo, per il quale la musica, la tv, le radio erano proibite e le donne non potevano né lavorare né mostrare il viso. Ma i contadini potevano coltivare il papavero, purché non ne facessero uso e versassero la decima al mullah. I mullah-poliziotti non erano aggressivi con il giornalista straniero. Ma si sarebbe detto che l’eterna guerra afgana non avesse sottratto a ciascuno di loro soltanto un piede, una mano, un occhio; e fratelli, padri, figli; ma anche qualsiasi traccia di gioia di vivere, qualsiasi reminiscenza di felicità. Parevano perfino incapaci di sorridere. 

Non so quanti di quei mullah siano ancora vivi, ma dubito che chi è sopravvissuto abbia smesso di combattere e si sia riconciliato con la vita. Chi invece aveva deposto le armi era l’afgano che incontrai nella locanda Mirwais, all’inizio d’una notte nera come la pece. Anche prima di scoprire come le avesse usate mi colpirono le sue mani. Era grandi e forti, e come se non sapesse bene come impiegarle, l’afgano le teneva inerti sul tavolaccio. Fissava il vuoto, immobile, con uno sguardo scuro che faceva pensare ad un agguato. L’uomo che gli sedeva accanto era il suo opposto, gioviale, quasi incontenibile. Aveva una gran voglia d’attaccare discorso con lo straniero. Era un ingeniere di Peshawar costretto dalla guerra a commerciare tappeti. Li comprava in Turkmenistan e li portava in Pakistan con il camion di cui era autista il suo silenzioso compagno. Presto l’ingenier Dastagir prese a raccontarmi d’una sua recente conoscenza, un mujahid che durante la guerra contro i russi aveva l’incarico di strangolare i prigionieri. “Sa quanti ne strangolò? Novecento, incredibile! Un compagno li teneva fermi e lui li strangolava con un cappio. Novecento, accidenti!”. Quando aggiunse che cercava di convincere lo strangolatore a pentirsi, capii che l’uomo di cui stava parlando gli sedeva accanto. In fondo è un brava persona, mi disse. Allora feci chiedere al brav’uomo se confermava. E quello confermò: novecento. Tutti ammazzavano prigionieri, mi disse. E poi, “nessuno ci aveva spiegato cosa farne. Così li ammazzavamo”. 

C’era della verità in questo: gli occidentali avevano fornito di tutto ai mujahiddin, dai missili Stinger alle efficacissime mine anti-uomo italiane; di tutto, tranne che brevi cenni sul trattamento dei prigionieri. Dunque, clac, lui li strangolava. Insomma erano erratici i confini tra quel che era giusto e quel che era sbagliato. Kandahar appariva un mondo doppio, e di quella doppiezza partecipavano in qualche misura anche gli stranieri ospitati in città e nei dintorni. I più influenti risiedevano nel consolato pachistano, retto da un barbuto noto ai kandahari come “il colonnello”. I più furtivi erano i sauditi che arrivarono nel ’98 con Bin Laden: si muovevano sempre in colonne di fuoristrada dai vetri oscurati. I più solitari erano i funzionari delle Nazioni Unite. Non uscivano mai a piedi dal compound dove vivevano, e dove, immaginiamo perché stufi della solitudine, accoglievano anche gli emissari d’una compagnia petrolifera, la Unocal, in trasferta a Kandahar. Probabilmente almeno alcuni tra i loro autisti afgani erano informatori dei Taliban. Del resto spiare è, dai tempi del Grande Gioco, un lavoro assai richiesto in questa parte dell’Afghanistan. Ma certo non è il lavoro di Daniele Mastrogiacomo, che della spia proprio non ha nulla.