Che cosa
sta accadendo al nostro sistema di relazioni sindacali? Da anni ormai i
contratti collettivi nazionali di lavoro per la maggior parte si rinnovano
con gravi difficoltà e in pesante ritardo o non si riescono a rinnovare
affatto. Il più noto è quello dei giornalisti, che è scaduto da due anni e
per il quale sono risultate inutili 15 giornate di sciopero; ma parliamo
anche di quasi tutti i contratti del trasporto pubblico (i cui scioperi, con
immancabile cadenza mensile, gravano pesantemente sull’intera economia del
Paese), del settore statale e di numerose grandi categorie industriali e del
terziario.
Secondo un recente dato Istat, il fenomeno riguarda ormai più di
metà dei lavoratori italiani. I sindacati protestano denunciando la
violazione del «diritto dei lavoratori al contratto». Ma con questo slogan
essi eludono il problema. In un sistema basato sul principio del
contrattualismo ? come lo è il nostro e lo sono tutti i sistemi di relazioni
industriali moderni ? un «diritto al contratto» non esiste proprio. Ed è
bene che non esista. Il contrattualismo si fonda sulla piena libertà
negoziale di ciascuna delle parti; ma una libertà piena non può esserci se
non è contemplata anche la possibilità che, quando le posizioni reciproche sono
troppo lontane, il contratto non si riesca a stipularlo.
Se questa libertà
non ci fosse e accordarsi fosse obbligatorio, avremmo un regime di
cogestione: un regime, cioè, nel quale il sindacato partecipa di diritto al
governo dell’azienda; e non sarebbe una buona cosa (un regime di sostanziale
cogestione è quello che i nostri sindacati esplicitamente con successo
perseguono nel settore pubblico, dimenticando ? ma lo dimentica troppo
sovente anche un management incapace di svolgere con indipendenza e
professionalità la propria funzione in questo settore ? che le riforme
Cassese e Bassanini degli anni Novanta hanno inteso istituire anche qui un
regime di vero contrattualismo, come quello vigente nel settore privato, che è
cosa diversissima dalla cogestione).
Un sistema moderno di libere relazioni
sindacali può funzionare bene ? cioè produrre con ragionevole fluidità e
tempestività i contratti necessari ? soltanto se tra i suoi protagonisti, da
ambo i lati, c’è un minimo di visione comune del contesto economico
complessivo in cui occorre operare, dei vincoli da rispettare e degli obbiettivi
da raggiungere. Solo questo minimo di visione comune consente di negoziare
sulla base di parametri chiari e accordarsi tempestivamente guardando
avanti: scommettere insieme su di un progetto di crescita, definendo una
spartizione ragionevole dei frutti del lavoro comune, che sia di incentivo
al lavorare meglio tutti, management e dipendenti. Questa visione comune
minima è proprio quel che manca oggi in una buona metà del tessuto produttivo
italiano.
Chiedersi se sia «colpa» dell’una parte o dell’altra non serve a
nulla: quando mancano la fiducia nella reciproca trasparenza e la capacità
di accordarsi almeno sul contesto e le prospettive, è infantile attribuirsi
reciprocamente la colpa, discutere su «chi ha fatto il cattivo per primo»: è
il sistema di relazioni industriali che non funziona più; ed è tutto il
Paese ad avere una marcia in meno. Finché quel minimo di visione comune e
fiducia reciproca non si ricostituiscono, il contratto non si fa; oppure lo
si fa male, in ritardo, guardando indietro, a ciò che si è perso nel
ritardo, invece che guardare avanti, a ciò che c’è da guadagnare tutti
scommettendo insieme sul futuro.Quella visione comune che oggi manca
dovrebbe, tra l’altro, rendere evidente quanto sia insensato caricare il
contratto collettivo nazionale della funzione di disciplinare
inderogabilmente ogni aspetto del rapporto di lavoro per l’intero settore e
sull’ intero territorio nazionale: dovrebbe essere evidente, per esempio,
l’enorme difficoltà di rinnovare un contratto destinato a regolare
rigidamente dall’A alla Z il lavoro e le retribuzioni degli addetti ai trasporti
pubblici di Milano e di quelli di Ragusa.
Per rimettere in moto il nostro
sistema di relazioni industriali è indispensabile che il suo baricentro si
sposti verso le regioni e le aziende. È da tre anni che Cgil, Cisl e Uil
hanno preso con Confindustria l’impegno a riformare la struttura della
contrattazione; ma in questi tre anni, lungi dall’accordarsi con Confindustria,
esse non sono riuscite neppure ad accordarsi tra loro. La vischiosità di
questo nostro sistema di relazioni sindacali rigidamente centralizzato
contribuisce, oltretutto, a chiudere il Paese alle opportunità di
innovazione che la globalizzazione dell’economia gli offrirebbe. Senza
innovazione, la quotidiana geremiade sul basso livello dei nostri salari non li
fa crescere di un solo euro. Ma l’innovazione di cui stiamo parlando si
contratta al livello aziendale, non a quello nazionale; per questo occorre
un sindacato capace di valutare in azienda il progetto nuovo e, se del caso,
scommettere su di esso, anche se esso deroga al modello fissato dal
contratto nazionale.