Un piccolo record la Finanziaria di Siniscalco lo ha già ottenuto: mai vi sono state reazioni così dure per una manovra correttiva di così dubbia efficacia. Al di là dell’apprezzabile limite del 2% posto alla spesa delle amministrazioni (ma aspettiamo i consuntivi), la Finanziaria per il 2005 è incerta e timida, ma specchio fedele delle condizioni politiche in cui nasce. A questa maggioranza non si può chiedere di più: il minimo comune denominatore economico del governo è modesto; bassa la residua carica liberale; elevata la paura di non tirare (politicamente) la fine del mese. Il prelievo fiscale cresce, al lordo dei condoni. Il premier ribadisce, in una lettera al Corriere, la volontà di ridurre le tasse, anche se, come aveva detto alcune settimane fa, per il momento, «non me lo lasciano fare». Chi avrà ragione? Lui, il presidente della Camera Casini, dubbioso sui reali limiti alla spesa pubblica, gli alleati più prudenti o i tecnici con i numeri in mano?
Tra Ionesco e Feydeau, la commedia continua. Gli attori sono stanchi. E gli spettatori, specialmente quelli che non tirano (economicamente) la fine del mese, indifferenti e rassegnati. A questi sentimenti danno voce le organizzazioni di categoria, la Confindustria e i sindacati. Ma i più delusi sono gli autonomi, il cosiddetto popolo delle partite Iva, architrave dell’Italia produttiva e moderata, e in larga parte artefici e ispiratori del successo del centrodestra. Freschi orfani di Tremonti, che diede loro dignità di rappresentanza e spessore politico, questi contribuenti conoscono inaspettate delusioni. Gli autonomi si erano abbeverati alla filosofia dell’Italia delle Cento Tasse, il libro-manifesto scritto nell’86 dall’ex ministro e da Giuseppe Vitaletti, e condotto una vigorosa battaglia contro la giungla burocratica delle procedure e degli accertamenti, contro quello che Tremonti definiva lo «Stato criminogeno». Ma, soprattutto, si erano scrollati di dosso il sospetto di essere evasori incalliti; sospetto che aveva il marchio dei registratori di cassa, introdotti da Visentini nell’84, o si celava sotto la formula dell’intervento a tappeto della minimum tax (1992).
Il revival inatteso è tra le pieghe della revisione degli studi di settore, nella manutenzione delle basi imponibili e soprattutto nell’introduzione di un nuovo reato punito con la reclusione da sei mesi a due anni per «omesso versamento di ritenute certificate». Come ai tempi delle «manette agli evasori». E questo dopo la bulimia di condoni, depenalizzazioni e autocertificazioni, e la sbandierata politica della fiducia e della mano tesa concepita per far dimenticare il volto grigio dello Stato esattore, tanto inefficiente quanto ingiusto. Un cambio di stagione o il disperato tentativo di aumentare le entrate dopo la messe di perdoni che ha ridotto, fino a deriderla, la già scarsa propensione a pagare le tasse nei tempi dovuti? La risposta l’avremo nelle prossime settimane e ai primi immancabili emendamenti in Parlamento. Resta la sensazione sgradevole di un’amministrazione in affanno che riscopre vecchi arnesi dopo aver lasciato per anni scappare vacche e buoi e calpestato fino a svilirlo il già modesto senso di legalità. A un paragone contadino ricorsero anche Tremonti e Vitaletti nella «Fiera delle Tasse» (Il Mulino, Bologna 1992) definendo gli autonomi kulaki fiscali. A qualcuno di loro, se lo rileggesse oggi, verrebbe qualche brivido. Ma il comunismo, per fortuna, è crollato e Siniscalco non ha ascendenti georgiani.
Il centrodestra, incapace, per ora, di ridurre le tasse come Berlusconi avrebbe voluto e dice di volere ancora, rispolvera persino un po’ di diritto penale, notoriamente poco amato da quelle parti, mentre a sinistra riaffiorano nostalgie tributarie. Nel primo confronto pubblico dopo la rottura del ‘98, a metà settembre, Bertinotti propose al candidato premier dell’Ulivo un’imposta patrimoniale. E Prodi? Lo sventurato non rispose.