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14 Maggio 2008

Il Cavaliere ecumenico

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

L´Unto del Signore che invoca in Parlamento «l´aiuto di dio» è la
rappresentazione plastica della quarta reincarnazione del leader. È un
vezzo culturale da antico presidenzialismo americano, ma è anche il
sigillo politico del nuovo «ecumenismo berlusconiano».

Dopo
quindici anni di avventura politica vissuta pericolosamente, il
Cavaliere che chiede alla Camera la fiducia al suo nuovo governo usa un
linguaggio da papa laico, e lancia un messaggio da pontefice
repubblicano. Questo giornale non ha mai risparmiato critiche a Silvio
Berlusconi, e a tutto quello che di negativo ha rappresentato e di
anomalo continua a rappresentare nell´eterna transizione italiana,
cominciata e mai finita dopo il terremoto di Tangentopoli. E continuerà
a non risparmiargliele, ora che si accinge a governare per la terza
volta il Paese con una maggioranza solida e un esecutivo compatto, che
non gli consentono più alibi di sorta. Ma in tutta onestà, nel discorso
pronunciato ieri dal premier si farebbe qualche fatica a trovare una
nota dissonante nei toni, o un aspetto discordante nei contenuti.
Naturalmente ci sarebbe molto da obiettare, sulle questioni di merito
che il Cavaliere ha eluso o affrontato in modo poco chiaro o troppo
sommario. Ma specularmente c´è qualcosa da dire, sulle questioni di
metodo che invece ha indicato con un´attitudine al confronto (e non più
allo scontro) e una disponibilità all´accordo (e non più al conflitto)
per lui del tutto ignote.

Dal «tempo nuovo della Repubblica», che
deve investire tutte le sue energie sulla crescita, all´«aria nuova» di
dialogo politico-istituzionale, da «respirare a pieni polmoni» per
arrivare alle riforme condivise necessarie a modernizzare il Paese. Dal
superamento delle differenze ideologiche e persino «antropologiche» tra
i poli al riconoscimento della funzione politica dell´opposizione e
persino del ruolo strutturale suo governo-ombra. Berlusconi inaugura la
legislatura con un´apertura di gioco che, se il paragone non suonasse
troppo azzardato e per certi versi blasfemo, avrebbe un respiro quasi
moroteo. In quel «nessuno deve sentirsi escluso», e in quella continua
chiamata al centrosinistra ad assumersi insieme «le comuni
responsabilità», si coglie un´intenzione positiva che va raccolta e gli
va rilanciata come sfida per il futuro: se questo è davvero il nuovo
spirito bipartisan che anima il presidente del Consiglio, e se questo è
davvero lo zeitgeist repubblicano che deve aleggiare sulla legislatura,
serviranno molti fatti concreti e non più solo alcune enunciazioni di
principio.

Ma intanto, con questo suo discorso quasi «epifanico»,
il Cavaliere sembra voler dismettere le pessime abitudini di questi
anni. L´usufrutto personale dell´istituzione e l´utilizzo congiunturale
della Costituzione. Il populismo mediatico al posto del riformismo
politico. L´uso plebiscitario del Parlamento e l´abuso proprietario
sulla televisione. Tutto questo, a prendere per buone le sue parole,
sembra appartenere al passato. Per la prima volta, dopo una campagna
elettorale che erroneamente avevamo giudicato «sotto tono» mentre
evidentemente era già l´espressione di un «altro tono», la corsa a
Palazzo Chigi non era più l´assalto al Palazzo d´Inverno. E per la
prima volta, dopo le rovinose e rissose esperienze del 1994 e del 2001,
la guida del governo non è più vissuta come «presa del potere». Non
sembra esserci più un «nemico alle porte»: un «comunista» da liquidare,
una «toga rossa» da cacciare o un sindacalista da combattere. Con
questo «nuovo Berlusconi», sempre che nei prossimi giorni e nei
prossimi mesi la realtà non smentisca l´apparenza, la «rivoluzione»
sembra farsi istituzione.

Semmai viene da chiedersi dov´era
nascosto, in tutti questi anni, il responsabile «uomo di Stato» che
abbiamo visto ieri a Montecitorio. Dov´era riposto, mentre si
trasfigurava nell´esasperato tribuno che nel 2006 gridava «i magistrati
sono un cancro da estirpare», o nel capo-popolo che solo sei mesi fa a
piazza San Babila arringava le masse dal predellino di una Mercedes.
Certo, si potrebbe rispondere che il «nuovo Berlusconi», dopo il
trionfo del 13 aprile, è davvero «stanco di guerra» semplicemente
perché ha risolto tutti i problemi che lo convinsero a scendere in
campo: ha ormai praticamente definito i suoi guai giudiziari, ed ha
anche felicemente risolto i problemi finanziari della sua azienda. Ma
questa, ancorché parzialmente vera, sarebbe comunque una lettura
riduttiva del berlusconismo, sia pure declinato nella concezione
leaderistica che ha impresso alla nostra democrazia. Resta il fatto che
ha plasmato una destra corporata e radicata nel territorio, e ha
dimostrato una sintonia profonda e costante con il Paese. Resta il
fatto che oggi questa sua «vocazione istituzionale», sorprendente
perché sconosciuta, lo proietta quasi naturalmente verso il Quirinale.
E questa proiezione spiega forse più di ogni altra cosa le ragioni
della sua «offerta» di collaborazione e di condivisione al Pd di
Veltroni.

E qui, per il centrosinistra, c´è insieme un´opportunità
e un pericolo. L´opportunità è quella di rientrare e di partecipare
alla dialettica democratica, dopo una sconfitta elettorale cocente,
senza rinchiudersi nella torre d´avorio del riformismo elitario o,
peggio ancora, nella pregiudiziale dell´illuminismo minoritario. Il
rischio è quello di appiattirsi, per banale debolezza o per becero
calcolo, fino a snaturarsi e a far scomparire del tutto l´idea stessa
di opposizione, parlamentare e sociale. Servirà un doppio registro:
confronto se possibile, scontro se necessario. Due soli esempi. Il
primo, sulle riforme istituzionali: è giusto cercare un´intesa sulla
nuova legge elettorale, ma è doveroso combattere un federalismo fiscale
che disarticola definitivamente l´unità nazionale e crea una cesura
irreparabile tra regioni ricche e regioni povere. Il secondo, sulle
leggi ordinarie: non si può votare no a una detassazione degli
straordinari e a una cancellazione dell´Ici (solo per una questione di
bandiera identitaria o di filibustering parlamentare) se queste misure
erano anche nel programma del Pd, ma non si può accettare un
pacchetto-sicurezza purchessia (solo per far finta di sedare le ansie
legittime dell´opinione pubblica) se scardina i principi giuridici del
diritto interno e internazionale. Oggi più che mai, come spiegava
proprio Aldo Moro alla Dc dei primi anni Sessanta, «non bisogna aver
paura di avere coraggio». Per il Pd è una buona lezione, nell´era del
neo-moroteismo berlusconiano.