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4 Settembre 2008

Il cavaliere amico di tutti

Autore: Paolo Garimberti
Fonte: La Repubblica

C´è una frase che illustra perfettamente le linee
guida della politica estera italiana in questo periodo di glaciazione
dopo il lungo ed euforico disgelo dell´ultimo decennio del secolo
scorso. L´ha detta Silvio Berlusconi dietro le quinte del vertice
straordinario della Ue, lunedì a Bruxelles: «Io sono amico di tutti e
debbo sempre gettare acqua sul fuoco».
È qualcosa di più e di
diverso dell´arte di barcamenarsi di democristiana memoria, che
funzionava benissimo negli anni, appunto, della guerra fredda: amici
subalterni dell´America, rannicchiati nel marsupio protettivo
dell´Alleanza atlantica al punto da essere ironicamente definiti “la
Bulgaria della Nato”. E poi, per evitare guai troppo grossi, un po´ di
scambi abbastanza disinvolti nei suk mediorientali. Oggi non basta in
un mondo dove non ci sono più certezze, linee di demarcazione
ideologiche e geopolitiche. Dove i microconflitti sono infiniti e dove
la Ue e la Nato si sono talmente allargate che è più facile ricordarsi
chi non ne fa parte, anziché chi ne fa parte. E quindi all´interno di
un´Unione o di un´Alleanza coabitano, spesso senza riuscire a
convivere, genealogie nazionali troppo diverse e interessi talvolta
divergenti. Allora essere “amico di tutti” può essere un problema e
comportare il rischio che, invece che acqua, sul fuoco si getti benzina.

È
accaduto con la Libia, dove sembrava che tutto fosse andato per il
meglio e Berlusconi potesse godersi un largo consenso per i suoi
accordi con il colonnello Gheddafi. E poi è venuto fuori, dalla
pubblicazione del testo integrale del discorso, che secondo il leader
libico l´Italia si sarebbe impegnata a non usare o concedere le sue
basi per un eventuale attacco Nato o Usa contro la Libia. Come ha detto
il generale Mini ieri al nostro giornale se fosse vero sarebbe una
violazione grossolana dell´articolo 5 del trattato costitutivo
dell´Alleanza atlantica (quello sulla difesa collettiva, che fu
menzionato anche a proposito degli attacchi terroristici contro
metropoli occidentali). Il ministro degli Esteri Frattini ha chiarito
che i trattati multilaterali «non possono essere messi in discussione»,
la Nato ha detto che la lealtà dell´Italia non è in dubbio. Però quello
della Libia è un classico esempio che in generale in politica
internazionale non bisogna mai fare i furbetti: essere chiari e
trasparenti è almeno altrettanto importante che essere amici di tutti.

Berlusconi
ha molte giustificazioni se non riesce a tenere del tutto dritta la
barra del timone della politica estera. Il suo governo opera in una
delle congiunture più difficili degli ultimi cinquant´anni per tutte le
ragioni sopra indicate. Il precedente dicastero berlusconiano navigava
in acque molto più facili, anche se sembra un paradosso. L´America era
sì stata violata da un attacco terroristico, però era l´unica,
indiscussa superpotenza globale. La Russia era ancora in una fase di
ristrutturazione e non osava sfidare né gli Stati Uniti, né l´Europa.
Tanto che Berlusconi aveva potuto vantare l´accordo di Pratica di Mare
tra Nato e Russia come non solo un suo merito, ma soprattutto un segno
che la Russia veniva ammessa nei salotti buoni dell´Occidente: una
concessione, prima ancora che un´intesa. Insomma, era un mondo
unipolare cristallizzato negli equilibri del dopo Muro di Berlino, che
avevano fatto gridare alla «fine della Storia».

Berlusconi aveva
fatto le sue scelte: alleato inossidabile di George W. Bush, distaccato
dalla “vecchia Europa” che si opponeva alla guerra in Iraq, e infine
amico personale di Vladimir Putin, che vendeva il suo regime come una
«democrazia controllata». Si poteva andare dall´«amico George» nel
ranch di Crawford e poi ricevere l´«amico Vladimir» a Porto Rotondo
senza difficoltà anche perché George e Vladimir a loro volta erano
amici o pensavano di esserlo («attraverso i suoi occhi posso vedere la
sua anima», diceva Bush di Putin).

Oggi non è più così soprattutto
perché è difficile l´equidistanza assoluta tra America e Russia.
Berlusconi ha fatto una meritoria opera di moderazione su Putin, ha
fatto gioco di squadra con Sarkozy, la Merkel, Zapatero e Brown nel
vertice europeo per annacquare (appunto) le posizioni incendiarie degli
ex sudditi di Mosca. Ma come spesso gli accade, perché è nella sua
natura, ha esagerato in personalismi, cadendo in qualche contraddizione
e finendo per essere criticato per una sorta di russofilia «moralmente
equivoca» da un giornale conservatore, spesso vicino a Bush, come il
Wall Street Journal. Ora dovrà recuperare il rapporto con Bush e
l´occasione gli sarà data dal passaggio di Dick Cheney a Roma di
ritorno proprio dalla Georgia. Ma, gli piaccia o no, il presidente del
Consiglio dovrà abituarsi all´idea che con questa glaciazione in atto
una linea di politica estera non può fondarsi soltanto sulle amicizie
personali, bensì sul multilateralismo incardinato nelle alleanze
istituzionali. La nuova Russia di Putin, comunque la si voglia
definire, ha rinverdito due termini che sembravano ammuffire nei grandi
testi diplomatici di George Kennan o di Henry Kissinger: «containment»
e «engagement» (contenimento e coinvolgimento). È un gioco difficile,
dove nessuno è davvero amico di nessuno.