Lo sapevamo già. Le impietose analisi sulla malattia italiana, che la Ue, l’Ocse, l’ Economist e infine l’Istat ci hanno scodellato nei giorni scorsi non ci hanno colti di sorpresa. Siamo diventati un Paese a scartamento ridotto e dal futuro più che incerto. È almeno da un anno però che imprenditori e comunità scientifica avevano suonato l’allarme. Ma, come ha ricordato ieri il presidente della Confindustria Luca di Montezemolo, «molti hanno voluto negare l’evidenza».
Si sono arrampicati sugli specchi, non hanno riconosciuto il carattere strutturale della crisi italiana e poi, non disponendo di argomenti migliori, hanno sentenziato che l’Europa è la causa dei nostri mali. Il risultato è che si è perso del tempo che va ad aggiungersi ai due anni consumati nell’inutile guerra per riformare l’articolo 18. I sei miliardi di euro investiti nel taglio dell’Irpef si sono rivelati altrettanto vani sia per rilanciare l’economia sia per riaggregare consensi.
Se almeno Silvio Berlusconi avesse avuto il coraggio di abbassare le tasse subito, come ha fatto l’amico George W.Bush, avremmo sì sforato il 3 ma forse l’economia ne avrebbe ricavato un benefico impulso. Invece viaggiamo al 5 di deficit con la stessa pressione fiscale di quattro anni fa. È vero che favorita dal cambio di regime economico rappresentato dall’introduzione dell’euro è aumentata la propensione degli italiani ad investire nell’immobiliare.
Ma se negli stessi anni il boom del mattone in Inghilterra ha fatto crescere i consumi delle famiglie e spinto la domanda di beni durevoli, da noi l’ipervalutazione dei beni immobiliari ha arricchito pochi operatori, autentici nuovi topi nel formaggio per dirla alla Sylos Labini, che hanno utilizzato i loro successi nel mattone per drogare in Borsa i valori già esistenti senza creare né nuove imprese né nuovi consumi.
E ora avendo accumulato grandi ritardi quale strada può prendere il Paese per uscire dalla sua malattia L’agenda 2005-2006 ci prospetta una lunga campagna elettorale, una interminabile stagione in cui le scelte identitarie delle coalizioni e delle singole forze che le compongono rischiano di avere il sopravvento, di monopolizzare il discorso pubblico. La sfasatura tra i tempi della politica e quelli dell’economia emerge drammaticamente.
Lo ha detto ieri a chiare lettere Carlo Azeglio Ciampi («non possiamo lasciar trascorrere dodici mesi senza agire con determinazione»), lo ha sostenuto Montezemolo tra gli applausi rivolgendosi sia al governo sia all’opposizione: «Togliete la testa dalle urne elettorali». Viene da pensare che sarebbe stato infinitamente meglio dopo le Regionali istruire immediatamente la campagna per le Politiche. L’esempio del cancelliere Gerhard Schröder che, sconfitto in un Land, ha convocato senza indugi nuovi comizi elettorali è importante anche perché è servito a cambiare le aspettative di quel Paese.
Guadagnare tempo non vuol dire però credere che esistano ricette magiche, capaci di farci uscire dalla crisi in settimane o anche mesi. Occorrono poche cose, sfortunatamente nessuna delle quali produrrà effetti nell’immediato. Ma prima si comincia meglio è: se le avessimo fatte cinque anni fa, ora saremmo in una condizione migliore. Urge liberalizzare e privatizzare, vendere tutto il possibile (ha senso il Poligrafico dello Stato) e poi diminuire il carico di burocrazia. Come ripetono in Confindustria, le imprese soffrono più per la burocrazia e le mancate liberalizzazioni che per il carico fiscale.