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5 Dicembre 2006

I rischi delle banche padrone

Autore: Franco A. Grassini
Fonte: Europa
Sino a pochissimo tempo fa, la maggior parte delle analisi dell’economia italiana era caratterizzata dal timore del ristagno.
Sembra ora subentrata, fondata su non pochi indici, la speranza di una ripresa. I soggetti,per altro, che dovrebbero essere gli attori di questa nuova fase paiono ancora piuttosto incerti sia sul ruolo che ciascuno deve svolgere, sia sugli obiettivi da perseguire. Analogamente la società nel suo complesso e le sue espressioni politiche in particolare non riescono ad andare molto oltre sacrosante promesse di liberalizzazione e richieste di innovazioni in tutti gli ambiti: dalla tecnologia al governo delle imprese.
In un quadro incerto come questo, su un punto sembra esservi notevole convergenza.
Le banche,per unanime riconoscimento, sono state le imprese che più sono cambiate in questi ultimi anni. Si sono spesso fuse tra loro per raggiungere dimensioni che consentano una capacità competitiva a livello europeo. Hanno avuto il coraggio di adottare per prime il sistema duale che, se applicato con coerenza al modello tedesco dove è nato, potrebbe consentire una più chiara distinzione dei ruoli tra proprietà e management. A livello di proprietà hanno mostrato come infondati i timori che una presunta autoreferenzialità delle fondazioni bancarie costituisse un blocco insormontabile ad assumere orizzonti ampi e di lungo periodo. Hanno dato un contributo fondamentale al risanamento della principale azienda industriale italiana, la Fiat, la cui svolta costituisce uno dei fattori principali del passaggio dal pessimismo all’ottimismo di operatori economici e consumatori.
Proprio per queste loro notevole capacità di mutamento c’è ora da parte del mondo politico una crescente richiesta a che le banche assumano compiti centrali nella fase di auspicato sviluppo. Si va dalle richieste di partecipazione al capitale di aziende in crisi da risanare (Alitalia non è l’unico caso) a quelle di svolgere un ruolo di rafforzamento dei precari assetti del capitalismo italiano. Occorre, invece, la massima cautela perché, preso atto dei fattori positivi cui si è fatto cenno, permangono nel nostro sistema bancario almeno due problemi delicati.
Il primo è rappresentato dalle catene di partecipazioni incrociate che lo caratterizzano. Basti, per tutte, pensare al caso Mediobanca, ma anche in molte altre situazioni ci sono incroci di non grande entità e, spesso perché non diretti, meno appariscenti. La conseguenza è, ogni qual volta si presentino delle scelte difficili, la ricerca di compromesso tra interessi o visioni che possono essere divergenti. Questo, in una situazione complicata come quella italiana, non favorisce l’assunzione di rischi e delle conseguenti responsabilità.
Altro problema molto delicato è quello del conflitto di interessi nel quale una banca incorre quando, oltre a svolgere la funzione creditizia, assume la posizione di azionista di una qualsiasi azienda. Un creditore per definizione deve essere prudente. Tanto più quando amministra mezzi dei depositanti. Per un azionista il rischio è il suo mestiere.
Il pericolo è duplice: per garantire i crediti concessi si possono imporre alla società partecipata politiche troppo prudenziali, quando – in un mondo che giorno di più è ferocemente competitivo – sarebbero opportune scelte coraggiose. Al contrario si possono concedere crediti eccessivi per non mettere capitale o per salvarlo. Siamo tutti convinti che in Italia uno dei problemi di fondo è quello di un capitalismo senza capitalisti veri, vale a dire con mezzi adeguati alle loro ambizioni. Non possiamo illuderci di superarlo facendo svolgere alle banche la funzione che dovrebbe essere dei mercati finanziari.
È, quindi, a questi ultimi che deve dedicarsi la massima attenzione cercando di stabilire regole severe sui conflitti di interesse e favorendo la trasparenza. Non si tratta di soluzioni semplici come mostra il fatto che in tutto il mondo occidentale ci si sta rendendo conto che “muri cinesi” nel mezzo di un istituto di credito e coscienza professionale non sono sufficienti, ma sui rimedi non c’è ancora un accordo. Una classe dirigente è tale quando riesce ad affrontare problemi difficili. Il ripensamento della legge sul risparmio può essere una grande occasione.