1 Luglio 2005
I dilemmi del Polo a un anno dal voto. La sindrome della sconfitta
Autore: Paolo Franchi
Fonte: Corriere della Sera
Silvio Berlusconi si dice certo di vincere le elezioni politiche. Niente da dire, fa il suo mestiere, e poi crede davvero nelle sue capacità di centometrista. Si fatica a immaginarlo davvero convinto, però, della verosimiglianza dei sondaggi che, come da tradizione, non si stanca di esibire ai giornalisti.
La notazione può anche apparire prosaica. Ma, sempre che non si creda che la massiccia astensione nei referendum sulla fecondazione assistita possa essere considerata l’inizio della Riconquista, dopo la batosta subìta nelle elezioni regionali per il centrodestra c’è, a fungere da segnale in controtendenza, solo la vittoria di Umberto Scapagnini a Catania. Il che, onestamente, è un po’ poco: uno Scapagnini non fa primavera. A punire la Casa delle Libertà in taluni casi continuano a provvedere, imperterriti, gli elettori, come nelle due votazioni suppletive per la Camera di domenica scorsa: votando per il candidato di centrosinistra, ma soprattutto disertando massicciamente le urne. In altri casi, invece, è determinante l’incapacità, o l’impossibilità, di allargare le alleanze. A Bolzano, dove si era imposto per sette voti, il centrodestra ha fatto appena in tempo a festeggiare: si tornerà alle urne, perché la Svp non ha voluto saperne di appoggiare il sindaco Giovanni Benussi. Saranno pure dettagli.
Ma è in questo poco entusiasmante contesto che Berlusconi ha annunciato la decisione di candidarsi per la quarta volta a Palazzo Chigi, e di rinviare all’indomani del voto (ma più probabilmente sine die) la formazione di quel partito unico del centrodestra sul quale tanto si era almanaccato nelle ultime settimane. Certo, qualcosa di non troppo dissimile è avvenuto pure nel centrosinistra, dove l’ambizione (o la velleità) di costruire una casa comune dei riformisti è stata archiviata, o meglio è stata messa in scacco da Francesco Rutelli e dalla grande maggioranza della Margherita. E Berlusconi ha qualche ragione quando afferma che non solo lui, ma anche Romano Prodi, se vincesse le elezioni, avrebbe problemi seri a guidare una vasta coalizione di partiti e di partitini, tutti forniti di un qualche diritto di interdizione e, sovente, di veto. Ma intanto nel centrosinistra almeno due leader di primo piano, Rutelli (che il ritorno in forza dei partiti, a cominciare dal suo, lo ha voluto) e Piero Fassino (che ne ha preso atto, e senza farsene un dramma) hanno tirato e tirano la carretta, per accrescere le rispettive forze, sì, ma anche le possibilità di vittoria, già elevate, dell’Unione.
Nel centrodestra, invece, non sembra accadere niente di simile. Come se l’esito negativo della battaglia fosse già dato in larga misura per scontato. E come se ciascuno (con l’eccezione, sempre che mantenga la parola, del centometrista Berlusconi) si prefiggesse soprattutto di collocarsi sin d’ora nella condizione più favorevole, o meno sfavorevole, all’indomani di una sconfitta considerata inevitabile: puntando le proprie carte sul lontano 2011, o magari pensando che già nella prossima legislatura tutti i giochi politici siano destinati a riaprirsi.
Comincia oggi il congresso dell’Udc; e domani inizia l’assemblea di Alleanza nazionale, alle prese con questioni di potere interne ma anche con seri problemi identitari. La speranza è che facciano la loro parte per smentire questa sensazione. Nel loro stesso interesse, perché affidare il proprio futuro a una sconfitta non si è mai rivelata una scelta politica lungimirante per nessuno. Ma soprattutto nell’interesse generale, perché in un sistema bipolare quel che matura in ciascuno dei due schieramenti condiziona fortemente, nel bene e nel male, la parte opposta. E dunque la qualità della contesa. Sin qui a dir poco modesta. Anzi, vista la posta in gioco, preoccupante.