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14 Febbraio 2005

Hillary, la mia ricetta per le Nazioni Unite

Fonte: Corriere della Sera

L’Onu è un’organizzazione indispensabile per tutti noi, nonostante i suoi difetti e le sue inefficienze. Ciò significa, in poche parole, che tutti coloro che oggi sono qui, e i governi di tutto il mondo, devono decidere che è nel nostro interesse rafforzare le Nazioni Unite, riformarle, porre rimedio alle evidenti mancanze burocratiche e manageriali, e incrementarne la capacità di reazione nei confronti delle crisi, da quelle umanitarie a quelle politiche.
Questo è, naturalmente, proprio ciò che Kofi Annan ha pensato di fare con gli obiettivi fissati nel suo piano Millennium Development, con il recente comitato di alto livello « Threats, Challenges & Change » ( minacce, sfide & cambiamento, ndr ) e con gli ultimi avvicendamenti nel personale. Ma l’autorità del segretario generale è limitata: il potere vero rimane, secondo la Carta dell’Onu, nelle mani degli Stati membri.
Quando l’Onu venne fondata, sessant’anni fa, a San Francisco, la sua Carta fu sottoscritta da 50 Paesi. Oggi i Paesi membri sono 191 e, francamente, è con allarmante regolarità che molti di loro a volte agiscono, più o meno inconsapevolmente, non nell’interesse di un’organizzazione superiore, bensì contro. Siccome l’Onu non è, in ultima analisi, un’organizzazione gerarchica indipendente alla stregua di una squadra sportiva o un’azienda, ma è l’insieme dei suoi membri, un’azione del genere non fa che indebolirla a poco a poco. Paradossalmente, è « l’Onu » ( un’astrazione che tutti, dai giornalisti a noi che siamo in questa sala, usiamo nelle nostre discussioni quotidiane) a essere spesso criticata per le azioni ( o le azioni non compiute) dei suoi membri.
È così nelle insensate e scandalose risoluzioni contro Israele fatte regolarmente passare da ampie maggioranze dell’Assemblea Generale. Non hanno alcun peso e, se ci pensate, ogni singolo ambasciatore all’Onu non fa che seguire le istruzioni che gli arrivano dalle rispettive capitali. Ma le critiche vanno all’Onu, non alle capitali.
È stato così anche nel drammatico scontro diplomatico sull’Iraq al Consiglio di Sicurezza del 2003. Mentre l’Amministrazione e i suoi alleati conservatori denunciavano con violenza l’Onu, in realtà la decisione di negare l’autorizzazione ad agire militarmente in Iraq veniva presa nelle varie capitali. L’Onu non era che il luogo dove queste posizioni si rendevano manifeste. Accusare l’Onu era come accusare un edificio di ciò che avviene al suo interno. A dire il vero, il sistema Onu ha funzionato nel modo in cui era stato previsto dai suoi fondatori. L’esito però non è stato quello auspicato da due delle tre nazioni, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che ebbero il ruolo maggiore nel creare l’organizzazione.
Il secondo punto è altrettanto semplice, ma rivolto in primo luogo al mio Paese: gli Stati Uniti hanno tutto da guadagnare da un’Onu più forte e più efficiente. In quanto nazione fondatrice, nazione ospite e nazione che in maggior misura vi contribuisce, gli Usa non hanno niente da perdere insistendo per la riforma, la trasparenza e l’efficienza. In campo umanitario e di peacekeeping, paghiamo all’incirca un quarto dei costi complessivi, e contribuiamo per il 22 per cento del bilancio. Se l’Onu è efficiente, il nostro investimento è altamente proficuo.
Se è debole, il nostro denaro, insieme al vostro, vale di meno, e su di noi, le nazioni più ricche rappresentate qui oggi, ricadrà un onere maggiore. Quindi, sostengo appieno gli sforzi di riforma del segretario generale e lo esorto a fare anche di più.
In altre sedi ho deplorato coloro che nel mio Paese cercano di indebolire, scardinare e sottofinanziare l’Onu. C’è molta gente negli Stati Uniti che considera l’Onu troppo forte. Ma è vero il contrario: è troppo debole per servire le grandi cause cui è chiamata: combattere la povertà, i conflitti e le malattie, e promuovere diritti umani uguali per tutti.
C’è chi in America teme che l’Onu voglia diventare un « governo mondiale » . Naturalmente sono male informati. Fu proprio rispetto a questo timore che i presidenti Roosevelt e Truman, e il primo ministro Winston Churchill, introdussero il veto al Consiglio di Sicurezza per i cinque membri permanenti. Senza quel potere di veto, l’Onu sarebbe stata debole come la Società delle Nazioni; senza quel veto, il Senato americano avrebbe respinto la Carta dell’Onu come aveva fatto con la Società delle Nazioni.
E senza l’Onu, il mondo sarebbe ancora più pericoloso.
Il che mi porta al terzo punto: peacekeeping, ricostruzione post- conflitto e Onu. I Paesi fondatori l’hanno sempre considerata la funzione centrale dell’Onu, e così crearono il Consiglio di Sicurezza con quell’importantissimo veto a cui ho appena accennato. Ma il mondo è cambiato in modo impressionante, e nessuno nel 1945 sarebbe stato in grado di prevederlo.
La maggior parte dei conflitti oggi non è provocata dall’invasione di un Paese da parte di un altro. I conflitti nascono entro i confini di un singolo Stato, come in Ruanda, in Bosnia, in Kosovo, a Timor Est, in Sudan/ Darfur, in Congo e in Afghanistan. Ciascun conflitto è caratterizzato da una serie di circostanze e di condizioni diverse, ma tutti richiedono l’attenzione da parte del mondo.
E tutti finiscono quindi davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu perché agisca, o non agisca. Sono favorevole a molte delle proposte presentate al segretario generale affinché si trovi il modo di affrontare le sfide di un ventunesimo secolo caratterizzato da Stati in disfacimento e terroristi. Devo però dire, onestamente, che la riforma del Consiglio di Sicurezza, giustificabile in linea di principio, sarà immensamente difficile da realizzare.
Un breve accenno si conviene a questo punto al rapporto fra Nazioni Unite e Nato.
Invitando per la prima volta un segretario generale dell’Onu a questa conferenza sulla Nato, avete già chiarito qui a Monaco il vostro punto di vista. Ma è necessario che venga compreso più diffusamente: nel mondo successivo alla Guerra Fredda, la Nato e altre forze militari multinazionali possono e devono svolgere ruoli importanti in operazioni di peacekeeping a sostegno dei mandati dell’Onu. È una cosa del tutto nuova, e stiamo ancora andando a tentoni. La Bosnia, in seguito al Trattato di Pace di Dayton del 1995, è stata la nostra prima avventura di questo tipo. Fu un successo: dopo dieci anni il Paese è ancora in pace e la Nato è stata rimpiazzata da una forza dell’Unione Europea. Il modello fornito dal Kosovo è più complicato: l’azione militare della Nato nel 1999 non era stata autorizzata dall’Onu perché la Russia aveva minacciato il veto. Dopo la guerra, però, la Risoluzione 1244 ha autorizzato l’invio di una forza Nato, i russi hanno aderito e oggi una presenza civile e militare congiunta Nato- Onu controlla l’applicazione della risoluzione.
A Timor Est, nel 1999, quando ci sarebbero voluti mesi per mettere insieme una forza di peacekeeping dell’Onu, il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato una forza multilaterale a guida australiana. Novantasei ore dopo quei soldati erano a Dili, il massacro di timoresi innocenti è cessato immediatamente, e non è più ripreso. Queste sono storie fortunate, che bilanciano i tragici fallimenti in Ruanda e Bosnia ( all’inizio) e, almeno finora, l’inadeguata risposta alla crisi del Darfur.
Che cosa possiamo imparare da questo decennio di successi e di fallimenti? Per quanto mi riguarda, la prima lezione è che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu deve fare fronte agli impegni. Non l’ha fatto, per esempio, in Ruanda. La seconda è che non può avere successo se usa il vecchio sistema fallimentare di mettere insieme lentamente forze di peacekeeping di tutto il mondo.
Che sono spesso deboli, scarsamente equipaggiate e mediocremente guidate. Ecco dove la Nato ( la migliore alleanza militare della storia in tempo di pace) può avere un ruolo. In Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan e ora, spero, in Iraq, svolge un ruolo vitale.
Perché non anche in altri luoghi, se è il caso, e con il pieno consenso di tutti i membri della Nato? Perché dire no, ad esempio, a un ruolo almeno limitato della Nato nella logistica, nelle comunicazioni e nei trasporti in Darfur, a sostegno alle forze dell’Unione Africana? Non sto dicendo che la Nato debba fare tutto e dappertutto. Dovremmo però imparare dal passato, e tenerci aperta una possibilità per futuri incarichi Nato nella realizzazione dei mandati del Consiglio di Sicurezza. Questo è assolutamente coerente con le osservazioni che abbiamo appena sentito dal segretario generale. Ma una cosa devo purtroppo prevedere: ci saranno altre Bosnie, altri Darfur nel mondo, e non possiamo continuare a dire « mai più » mentre di nuovo stanno accadendo davanti ai nostri occhi! Per finire, desidero sottolineare il mio punto centrale: abbiamo bisogno di un’Onu migliore, non di un’Onu più debole. L’America deve prendere il comando, altrimenti questo non sarà possibile. Ma tutte le altre nazioni presenti a questa grande conferenza hanno un ruolo da svolgere. Il nostro principale relatore di oggi ( Kofi Annan, ndr ), che ha dedicato la sua vita all’Organizzazione, che è nostro amico oltre che una figura mondiale di enorme statura, non può farlo da solo. Gli alti ideali dei fondatori del 1945 non saranno ancora stati realizzati, ma sono sempre validi. Ed è nostro dovere nei confronti del mondo raddoppiare gli sforzi per raggiungerli.

Traduzione di Monica Levy