Attualmente, i presidenti delle regioni Lombardia, Veneto e Sicilia sono anche senatori, eletti il 9 aprile. Ma l’articolo 122 della Costituzione dice che «nessuno può appartenere contemporaneamente ad una giunta regionale e ad una Camera del parlamento». Dunque, fra poco, quando vi sarà l’inevitabile dichiarazione di incompatibilità, Formigoni, Galan e Cuffaro dovranno abbandonare il parlamento.
È inevitabile ma non è un bene. È anzi da sperare che uomini politici della loro forza rappresentativa vi tornino presto. Non in base ad una “appartenenza” che la Costituzione vieta, ma a titolo di una “partecipazione” che la legge costituzionale invece consente. Con quei “governatori” di centro-destra, dovrebbero, ovviamente, entrare a dare il loro contributo ad un “parlamento di governo” anche “governatori” di centro-sinistra. Da Vasco Errani ad Agazio Loiero, da Riccardo Illy a Antonio Bassolino, da Luis Durnwalder a Claudio Martini alla Bresso e agli altri. E sindaci di grandi città: da Walter Veltroni a Letizia Moratti, da Sergio Cofferati a Giuseppe Pericu, da Massimo Cacciari a Sergio Chiamparino alla Jervolino e agli altri. Insomma, il meglio di una dura politica di gestione, fatta giorno per giorno, sulle cose.
L’elezione diretta ha dato da tempo agli esponenti dei governi territoriali una straordinaria capacità di voce e di proposta. Capacità che è ora difficile trovare tra deputati e senatori, “nominati” più che eletti in forza della assurda legge elettorale, confezionata in extremis dal governo Berlusconi. Tenendo lontano da Roma governatori e sindaci, si rischia quindi, più che in passato, di accrescere la distanza tra lo Stato e le autonomie territoriali che, assieme ad esso, costituiscono la Repubblica. Occorre, dunque, trovare subito un rimedio. Ed il rimedio c’è già. Basta attuare norme costituzionali vigenti.
Fin dalla Costituzione del 1948 era stato previsto che per i rapporti Stato-regioni vi fosse in parlamento un solo organo, costituito da deputati e senatori: la commissione per le questioni regionali (art. 126). L’unico collegio intercamerale in un quadro costituzionale, perfino irritante, di bicameralismo perfetto. Nel corso dei lunghi anni trascorsi, questo organo ha dato buona prova di sé con funzioni via via accresciute dai regolamenti parlamentari. Fu logico, dunque, puntare su questa commissione quando, nel 2001, una legge costituzionale, confermata da referendum popolare, modificò (con un misto di virtù da conservare e di vizi da eliminare…) l’assetto dei rapporti Stato-regioni. Per fare di quel collegio comune fra le due Camere, lo strumento per raggiungere tre obiettivi.
Primo, consentire l’ingresso in parlamento, proprio con la partecipazione alla commissione per le questioni regionali, «di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali». Secondo obiettivo, dare a quella commissione, così arricchita di protagonisti territoriali, un potere di condizionamento delle decisioni parlamentari in due momenti strategici. Quando vi deve essere legislazione “concorrente” tra Stato e regioni (allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, alle regioni l’ulteriore potestà legislativa). E quando si deve porre mano alla ripartizione delle risorse finanziarie e dei relativi poteri tra Stato e regioni (il cosiddetto “federalismo fiscale”). Terzo obiettivo, avviare, con la partecipazione dei governi territoriali e, soprattutto, con quei poteri di condizionamento del processo legislativo attribuiti alla commissione, una originale sperimentazione (secondo un modello ispirato a quello del Bundesrat tedesco). L’esperimento di dare intanto uno sbocco in parlamento alle regioni: «sino alla revisione delle norme del Titolo I» sul parlamento, come dice testualmente la legge costituzionale che lo prevede.
Bene, tutto questo è rimasto finora sulla carta. La maggioranza di centro-destra della passata legislatura ha visibilmente sabotato questa riforma ispirata dal buon senso e dal gradualismo. Per inseguire invece il miraggio del «Senato-federale-subito». Una Camera detta “federale” ma composta, nel progetto respinto, con criteri di non-rappresentanza territoriale. Miraggio perciò destinato alla matematica dissolvenza del 25 giugno scorso. Cinque anni perduti così per montare e smontare un meccano assai poco sensato. E cinque anni perduti vietando invece una sperimentazione costituzionale necessaria per riformare il nostro bicameralismo (e che avrebbe evitato anche molto contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale…).
Siamo a questo punto, dunque. Per recuperare presto quel tempo sperperato, occorre, allora, che i presidenti di Camera e Senato si adoperino immediatamente per realizzare quello che i loro predecessori non poterono o non vollero fare. Attuare cioè quella legge costituzionale: per introdurre, nei regolamenti della Camera e del Senato, la previsione della partecipazione alla commissione per le questioni regionali «di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali».
Una «partecipazione» che nelle 3 o 4 riunioni mensili della commissione consentirebbe una serie di coordinamenti tra azione centrale di governo e governance territoriale. Un «non perdersi di vista» tra legislazione statale e quella regionale (cercando di ridurre al minimo i ricorsi alla Corte). Un avvio dell’essenziale, e ormai urgente, dibattito sulla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche: che è bene che avvenga nella trasparenza parlamentare e non nel chiuso di inconcludenti organismi tecnici o, peggio, di accordi viziati dal reciproco tornaconto di partito. Insomma, la migliore maniera per saggiare su basi pratiche, strutture e funzioni di un «Senato delle regioni» per la prossima legislatura.
Dopo l’ubriacatura della Grande Riforma, finita annegata, come era suo destino, nel canale referendario, ecco dunque, con il corrimano della Costituzione “salvata”, il riformismo vero che ritorna. Quello che Giorgio Napolitano ha definito «lo sforzo cui sono chiamate tutte le componenti dello schieramento politico, quelle di maggioranza insieme con quelle di opposizione, con la riflessività e la gradualità necessarie».
Uno sforzo che può cominciare, appunto, richiamando in parlamento i «governatori» che se ne stanno andando (e gli altri che, forse sbagliando, scelsero, per fair play, di non agire da traino elettorale nelle loro regioni). E costituendo un nesso concreto, in vista del futuro istituzionale, tra l’Italia romana e l’Italia italiana.